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Allora volo via perché arriverà che mi infilo gli anfibi e la maschera migliore e un attimo è già domani ma non me ne parlare così spesso perché arriverà, te lo giuro, un miracolo anche per noi.

THE KING

Fifuzza

“uno strappo di foglio da un capitolo a caso del mi racconto a caso di Fifuzza”

…] Sua madre era per tutti “La brutto carattere”, “L’antiquata”. Un po’ bipolare, da che non voleva far niente a che ti sorrideva e ti aggiustava i problemi. Ti allontanava con una brutta parola, tono cupo, poi c’era quando voleva invadere tutta la privace. Malfidata e leggermente paranoica. Da che un bacio sulla guancia (perché la famiglia è la famiglia) a quando spariva. Una senza peli sulla lingua, ma come sapeva fare le impanate siciliane lei nessuno mai. Una dignitosa e d’altri tempi. Era la chioccia, la mammona, silenziosa anche nei suoi sproloqui. Chiacchierona a tavola “Poi dopo c’è tutta l’eternità per stare zitti” la sua frase ricorrente.

Il monitor si stabilizzò, i movimenti meccanici dei piedi sotto il lenzuolo smisero, e lei uscì dalla stanza. Sentiva di bruciare tempo agli altri, a sua sorella Elsa soprattutto.
Nella saletta colloqui la dottoressa che la seguiva disse a tutte e due, che non la stavano sedando, ma che non stava soffrendo, e che dovevano solo aspettare, attendere fino al momento che si sarebbe spenta da sola.
– Avevamo capito dal pronto soccorso ch’era praticamente morta –
– No –
– Al pronto soccorso stanotte, mi sembrava d’aver capito che dovevamo prendere la decisione se far staccare la spina? –
– Uhm no no, non c’è nessuna decisione che dovete assumervi voi. Vostra madre Ninfa è in coma irreversibile. Purtroppo non c’è via di ripresa. L’ictus l’ha colpita nella parte del cervello in cui dà gli impulsi più primitivi. È nel punto più profondo, non possiamo intervenire. –
Le due si guardarono, si sentirono sollevate dall’incarico, ma più confuse, uscirono dall’ospedale.
Tornarono a casa per prendere all’uscita di scuola Anjum, la quale raccontò di non essersi trattenuta da una crisi di pianto, per aver ricordato la nonna in coma ormai in fin di vita.
– Sai mamma, ho fatto un disegno, è per nonna, posso portarglielo? –
– Fai vedere, dà qua! –
– Sai oggi sono stata interrogata a geografia ma ho detto che non ho potuto studiare per via di quello che era successo –
– Sì ok hai fatto bene. Non ci pensiamo più per un po’. Siamo stanche dai. – La prese per mano e la portò correndo a un giardino pieno di giochi e di bimbi sguscianti da ogni siepe.
– Ah a proposito il disegno è bello! Solo che se è per la nonna, manca giusto giusto lei! La nonna! -.
Erano tanti colori un po’ qua e là, sullo sfondo un vulcano, dato che era il periodo che stavano studiando a scuola i vulcani coi vari esperimenti di esplosione, e tanto cielo, cielo chiaro ovunque.
Arrivarono al parco giochi, Magda andò a sedersi esausta in una panchina all’ombra di un pino, acccanto alla fontanella sempre presa d’assalto dalle api, mentre Anjum senza neanche guardarla andò a correre verso il gruppettino di bambini che giocavano a calcio in cerchio. Nell’unico punto in cui non c’erano panchine coi vecchi. Lontano dagli scivoli dei poppanti. Da bambinetti viziati piagniucolanti se non venivano accontentati all’istante dagli altrettanto genitori-bambini. Ritrovò il sorriso in un batter baleno. Ed anche se era Novembre inoltrato, gettò a terra il giubbotto, e corse per raggiungere la palla, battendo i compagni maschi in porta e in difesa.
Sua madre invece non la perdeva mai di vista, le stava facendo un ritratto cogli occhi. L’osservava in tutte le sfaccettature, distraendosi dal pensiero fisso, se no il suo volto si sarebbe rovesciato in una cascata di lacrime. Non voleva fare brutta figura davanti ai suoi compagni, davanti ai genitori dei suoi amici. Il vento le passava tra i capelli poi percorreva la stessa traiettoria della bambina lì sullo sfondo a passare la palla e a dar spinte ribelli se solo vi era un fuori gioco.
Anjum, 10 anni ben piantati nei mille capelli sciolti, la chiamano “Polipo”. Per quel modo assurdo di saltare all’ingiù sul letto, con le braccia appicicate sulla coperta, manco avesse i tentacoli. La piccola sembrava essere più forte di mamma e papà messi insieme. Loro erano fin troppo emotivi, fragili e sconclusionati, ancora alle prese con il definire le loro identità. Invece lei no! Lei era ben centrata. Sicura di sé. Non l’aveva mai sentita piagniucolare a vanvera quando era nata, figuriamoci adesso che era alle elementari. Lei corre, sembra un’antilope, non la puoi prendere, puoi essere ghepardo o pantera quanto ti pare, ma con quelle gambe lunghe lì, con quella schiena agile lì, con quelle spinte in verticale e in lungo, non ce la puoi fare. Quando prende la rincorsa si trasforma, è antilope. Dietro tutti gli altri bambini che giocano ad acchiapparella e ridono, e ride, come se esistessero solo loro.
Nei giorni successivi la madre si stabilizzò nella stanza di rianimazione, la N°14, coma irreversibile. Nelle stanze adiacenti altri come lei, in un sonno perenne tra tubi e rumori e polmoni artificiali.
Una mattina, nella scuola della figlia, si fermò per un attimo a far due chiacchiere con un gruppettino di mamme. Sapeva solo una cosa: non doveva smettere di fare cose, se si fosse fermata la tristezza e la depressione post trauma per ciò che aveva vissuto il 9 Novembre, l’avrebbe presa, avvinghiata in una morsa come fa il Boa alle sue vittime.
Quindi si fermò lì al cancello, e una di queste donne, neanche tanto ben distinte, le chiese a brucia pelo:- E ora? Ora che farai? –
Tutte le altre fecero spallucce e alzarono gli occhi al cielo. Ma Magda capì bene, capì molto bene l’affermare di quella domanda. Capì perfettamente che quello non poteva essere più l’ambiente per lei. Che quelle persone non c’entravano nulla con lei. E che… ancora non l’aveva ancora “seppellita” e già il gruppetto-mamme si stava chiedendo cosa potesse fare nel futuro, o cosa penserà di fare: un viaggio? Una gita con tour operetor per distrarsi dallo stress? Riprendersi la libertà come se questa le fosse mai stata sottratta? O un lavoro? Già perché no? Ora che finalmente secondo loro, si sarebbe sentita più libera, poteva anche pensare a cercarsi un lavoro! Così da passare da una galera
(l’accudimento dell’anziana madre) ad un’altra galera (il lavoro da sottoposti). Le stava venendo il voltastomaco! A quell’affermazione decise all’istante che non le avrebbe mai più dato un briciolo del suo tempo prezioso.
Le rispose con un sogghigno, in cui fece solo trasparire mistero, e trasformò quel momento d’imbarazzo in qualcosa di poetico.
– Bah che dire, ora che farò? Ora vado a prendere il pane, il biglietto del tram, poi vado a trovarla all’ospedale, e poi cercherò di esser qui in tempo per l’uscita della classe, visto che nessuno si vuol prendere la briga di prendere Anjum per un giorno intero. Ciao ragazze! –
Nel tragitto in tram, le venne il terribile groppo alla gola, classico sintomo di un inizio di depressione. Di una tristezza paragonabile al fondo più fondo che c’è. Un buco di galleria, dove c’è luce che ti insegue, ma tu scappi e scappi e ti ficchi dentro al buio. Poi gli occhi le si riempirono di lacrimoni. Come non aveva mai pianto da anni. La cosa strana era che più si sentiva angosciata e depressa, più sentiva che la presenza di sua madre svanisse. Più si sentiva invadere da quel sentimento causato dal chiacchiericcio di quella stupida, più si sentiva abbandonata persino dallo spirito di sua madre, la sentiva lontana lontana, irraggiungibile.
Udiva ancora quella frase “E ora che farai?” e si sentiva pervadere dal basso ventre una sensazione di panico. Qell’idiota, madre di famiglia, con quella parolina fuori luogo, e con il tacito assenso misto a menefreghismo, delle altre, stava contribuendo a farle venire un attacco di panico.
D’improvviso il tram si fermò, qualcuno le passò un fazzoletto, poi ripartì. Senza rendersene conto sganciò un sorriso, e sua madre apparve nel vetro del tram, tra un manifesto e un’altro. C’era lei, che rideva, e la indicava con un dito, e rideva e rideva, come quando era bambina.

Aveva una camicetta bianca ed i capelli scuri in un’acconciatura vaporosa. Se ne stava lì sul finestrino enorme del tram, Magda si sentì invadere da una vampata di calore. Non smetteva più di sorridere. Ripensò a quella giovane madre al cancello della scuola, a come sia stato possibile che da una bocca così sottile, fatta di sottiletta rosina, sia potuta esplodere una bomba di fuoco come dalla gola di un dragone. Boom e boom e splasch, fuoco ramificato più bollente di lava vivida. Smise di sorridere di botto. Diventò seria tutta d’un pezzo. All’istante la figura di sua madre sparì.
Finì la corsa del tram davanti all’ingresso principale dell’ospedale. Era buio ormai. Le faceva fatica vedere che ore fossero, si sentiva un cane sciolto, senza più doveri di impegni, senza avanzare il passo per non tardare a casa, senza più che nessuno l’aspettasse per la cena. Un cane sciolto così di botto. E tutta quella libertà improvvisa, non sapeva più come gestirla. Ne ebbe diniego. Se solo avesse potuto pigiare un pulsante per riavvolgere il nastro, nastro tutto ingarbugliato, fino a qualche giorno prima. Ebbe paura. Pregò in silezio di poterla salvare, di poterla aiutare un po’ di più.
All’angolo tra il muretto e le porte a vetro dell’ingresso principale, c’erano dei barboni ubriachi. La fissarono, lei no, era dritta verso il suo intento: entrare, scivolare lungo gli infiniti corridoi, pigiare il pulsante bianco dell’ascensore, arrivare al Primo Piano Settore B.
Le porte scorrevoli si aprirono, e una donna coi ricci biondi con le sfumature turchesi, le si parò davanti e gridò:- Scusi ehi ehi lei dove va? -. Aveva mascherina a punta bianca che copriva metà viso fino al mascara delle sue doppie ciglia.
– Io? Dovrei andare in rianimazione. Ho mia madre lì… –
– Mi esibisca il Green Pass per cortesia! –
– Cosa? Che? Io ehm, non ce l’ho, e poi mi scusi ma è un paio di giorni che veniamo tutti i giorni qui e fino a ieri eh oh! E nessuno ce l’ha mai chiesto! Ch’é cambiato da ieri ad oggi? –
– Senta, io non so che cosa sia successo ieri, cosa sia andato storto, ma ieri io non c’ero, ci sono oggi, e lei non la faccio passare se non ce l’ha! -.
Rimase di stucco, un groppo in gola, stava per scattare come non aveva fatto da anni, aveva un nervosismo dentro incontenibile. Fece un passo indietro per timore di saltarle sulla scrivania. Altre vecchiette dietro di lei si frugavano dentro la borsa disperate alla ricerca del foglio per il lasciapassare, si sentì anche una cantilena a bassa voce – La prego, non mi dica che ho fatto un viaggio a vuoto, sono piena di dolori alle ossa, voglio solo andare a trovare mio marito, non so se rimarrà in questo mondo fino a domani –
– Anche mia madre non so se riuscirà a passare questa notte, per favore! -, un uomo scappò dentro dicendo di seguirlo e mandare tutti a quel paese, – Dai vieni, vieni per di qua, taglia di su e non ti riprendono più, non hanno nessun diritto di infierire sui dolori della gente, vai tranquilla! – la tipa con capelli turchesi e doppie ciglie ripiegate e becco da oca si attaccò al telefono…

Basta coi Brutti

Peccato! Avreste potuto passare persino per brave persone. Perfino per collaborative. È stato un peccato. Non avete colto al volo le 10 chances che vi ho dato, per poter passare alla storia come belle persone. Che danno quella mano in più. Invece no, non avete colto le possibilità. Ed io ho perso tempo, mi sono contornata di bruttezza e non di bellezza. Basta con tutta questa bruttezza! Là fuori è pieno di gente che brilla! Basta mischiarmi coi brutti, coi non appassionati, con chi non vuole partecipare e non si schiera mai. Con chi ride sempre e si volta sempre dall’altra parte. Ed io posso essere più Bella di così!

e se ricominciassi ad ascoltare Alanis e vaffanculo a chi non c’entra nulla con me!!

AVANA SETTE



Atterrata a Malpensa il 5, non mi riposo, non dormo, non mi rilasso, piango a dirotto in bagno, cazzo ho già il Mal d’Africa. Lo confondo con “rapporto conflittuale coll’essere umano”. Mentre invece è solo “desiderio di quei colori lì”. Mal d’Africa mi assale sottopelle sino a frantumarmi le sinapsi. Non penso ad altro, anche mentre riprendo a lavorare alla Galleria d’arte Moderna a Palace di Sua Maestà Cosimo Il Vecchio. Ad obliterare biglietti sputacchiati. Odore di alabastro, di capra, di latte e thè, di vetro soffiato. Male d’Africa mi prende come incantatore di serpenti da sotto il letto, mi trascina giù a terra fino allo squillo di telefono che irrompe, mi riporta nella dura realtà: turisti americanizzati anche se hanno gli occhi a mandorla, Smartphon come fotocamere e turbanti indiani per man e burqa per girls. Lo squillo di telefono cambia un po’ tutto, o ci prova, mi dice che devo subito ripartire per un’altra breve vacanza stavolta senza sabbia calda e mullah che cantano all’ombra dei grandi datteri.
Atterrata a Malpensa il 5, volo a casa, volo in banca, volo al cesso, volo davanti una tazzina di caffè nero, volo al telefono. E chiamo tutti quelli che mi sono mancati. Te e Carlo Alberto. Forse ho avuto l’intenzione di chiamare con segnali di fumo anche il mio migliore amico, ma ormai non risponde più al richiamo d’indiani. “Wrong dei Depeche Mode sempre in cuffietta”.
Il tempo di una litigata furibonda, il tempo di fare giù a spintoni, il tempo di prendermi una sbornia dalla quale non mi riprenderò più, e via son ripartita per un altro lido, altre lande, altre zigzagate.
Sollevate da terra il 7, l’aereo faceva slalom attraverso le nuvole, sopra le Alpi. Questa è la volta buona che io e te Conny, si va A Berlino.
Te che fai: – Uh! Uh.. uuhh! Senti, senti come và! Qui ci si schianta tutti! Oh Oohh Oddiooo! –
Ed io che fo: – Guarda. Guarda bello lì! A và guarda! E lì… e là… e uuuooaawwww!! -.
S’arriva piene di innocenza e genuina fame di conoscere… e si becca il nostro contatto italo – deutsch: Monica si chiama, detta Avana 7 o Gigia o Gnomo o Louigia o Ehi Tu o Topo o semplice Avana. Dalla sua passione per l’unica cosa alcoolica che può bere: una bottiglietta Mignon da collezione di quell’amaro, dice squisito ma assolutamente introvabile. Lì cari, non ce l’aveva nessuno. Si girava e si rigirava per supermarket e non ce l’avevano tra gli scaffali. Assolutamente introvabile. Morale? Non ha bevuto quasi niente ed è stata astemia tutta il tempo. Muha!!
Conny ed io non abbiamo avuto così poca voglia di bere come a Berlino. Imperdibili le nostre espressioni del tipo: “ehi ma che ci piglia?” Pioveva sempre. Il freddo ghiaccio ci accompagnava. Le pozze per terra facevano ciaf ciaf al passare dei nostri anfibi. Bisognava comprare immediatamente dei guanti. Le ossa erano dei chiodi al sangue. Il nostro umore era sotto zero. Morale? Sembravamo d’esser lì lì per strapparci i capelli e la cosa cascava sempre di sottobosco. Morale? Ci evitavamo. Da zona Ostbahnhof a zona Ostkreuz. Da metropolitana in metropolitana, da muro est a muro ovest. Per 20 minuti. E la brina sul collo e il nevischio alle orecchie. E il nostro umore sempre sotto lo zero. Le ragazzotte del metrò ci potevano soprannominare. Sempre con quella cartina in mano alla rovescia. Tranquillamente 10 al giorno ne potevamo prendere di metrò. Su e giù per scale e per direzioni sbagliate. La parola che è saltata di più all’occhio è stata: AUSGANG! Da zona Charlottenburg a Spandau a zona Brandenburger, con cartina in mano, e tante grazie, c’è la linea verde basta seguire sempre la linea verde, tanto c’è la U1. Poi da Plazt checazzoneso all’Alexanderplatz! Le parole son state suonate in testa da martedì a domenica: You Speak English? Am Sorry! The metro? Tu coffee express! You Speck Italian? how Much?! Ausgang e Danke e Dankescen e così sia. Una sera io vado per conto mio, Avana sette porta la Conny in giro per musei o cazzo-ne-so, per mercatini dell’usato. O a mangiare al Thailandese. Io decido di bere berlinese finalmente! Entro al Bull Bar. Dico: “One Beer please!” me la fa su un boccale da un litro e mezzo. Cari, ci siam capiti. Vo a bere, vo a sedere, vo a fumare, dentro, che lì cazzo dove vai vai, si può fumare dentro! Gioco con un cagnaccio dal colore ruggine, vuol bere la mia birra vedo, ritiro la mano. Che lì dove vai vai, ci son cani dappertutto dentro i locali. E mai piccini. Vado a pagare già mezza arrivata e mi fa la tipa: “Two euros”! Insomma miei cari, l’acqua minerale costa di più. Lì! Esco e giro a destra, un altro isolato. Vo tutt’a dritto. Entro al Pub Grand. In effetti è bello grande. Pieno di divani e di lumini. Pieno di tavoloni stile ottocento. Pieno di poltrone rosso bordeaux e di velluto. Chiedo: “One beer please!”. Dico: “How much?” La tipa risponde sorridendo: “ un euro e mezzo!” la mia faccia è esterrefatta. Che dalle mie parti in quel posto sarebbe costata 8 euri buoni, buoni. Mi faccio una canna di Mery Jane con uno e una sua amica ed un altro ciccione. Fumo roba d’alto livello con perfetti sconosciuti in un posto perfettamente sconosciuto. E si fa già buio. Lui si chiama Iom… saluto Iom e gli altri e mi avvio nell’appartamentino dove alloggiamo io e Conny. Finalmente colla faccia soddisfatta. Incottita. Conny, io e Avana sette, il giorno a venire, siamo andate a mangiare un boccone in una enoteca. Loro due ordinano un piatto di lumache in due. Ci portano due assaggini di vino, e mentre io cerco di degustare, la Conny sgrana l’occhio e mi dice: “ehi guarda che non lo devi bere tutto!” ed io le lancio un’occhiata e basta. Una sola. Tanto no? Ci siam capiti cari, mica son idiota! Esco direttamente a fumare fuori e a prendermi un maldigola, fuori. Che lì se rimango alla fin fine della fiera, me la mangio viva ma ho smesso con la carne umana ahimè!
Vedere quelle piccole viscide lugubri lumachine appallottolate nel sugo piccante travolgente, è stato esilarante. Ho pensato a niente. Ogni boccone che prendevano pregavo per loro. Povere viscide sguscianti nere lumache. No perché io da piccina le coglievo e ci giocavo e le allevavo a casa! Perché da piccina avevo una passione per le lumache che le facevo figliare in terrazza in cucina, prima che la mamma mi dicesse: – a lavarsi le mani presto che i bastoncini findus sono pronti! –
Il giorno più affascinante di quella settimana color panna e sorbetto, è stato quando di fronte ci siam trovate faccia a faccia col Muro e un’immensa pozzanghera di pioggia a terra. Rifletteva i vari dipinti murales del pezzo di muro rimasto. ( Pezzo si fa per dire, perché son rimasti due chilometri buoni buoni per ricordo ). Dipinti di uomini con facce rosse, dipinti di bandiere blu e qualcosa. Vento incredibilmente forte tanto da spostarmi sempre la sciarpona di lana nera.
Il tredici ottobre si stava per perdere l’aereo. Avana sette ci fa: “No problem! Dormo da voi e vi accompagno io all’aeroporto…” e noi: “ma ne sei sicura?” e Lei: “Ci penso io!!” e…. cari, abbiamo sbagliato semplicemente aeroporto! Con un corri corri, e un fuggi fuggi, in taxi siamo andate dall’altra parte della città. Si fa il CECKIN gli ultimi 5 minuti prima del gong. Prima dell’infarto.
Si corre e si scivola e si fa – Pista! Pista! – senza battito cardiaco. Abbiamo così preso il volo al volo. Letteralmente. Accidenti al tempo. Cipicchia al tik tak. Al cklik cklok dell’orologio. ‘cidenti al ritardo figliodiputtana!


DA LUXOR A HURGADA

DA LUXOR A HURGADA
È caldo. Fa caldissimo. L’aria si mischia coi colori e forma altre righe. Il cielo scompare a vista coi granelli incandescenti. Se stai immobile appare il miraggio. Lo guardi con espressione nobile. Ti scappa di strizzare un occhio. Ma non sparisce più. Fa un caldo bestia qui ladies and gentlemen.
Sono in Egitto.
Sono sbarcata insieme a un gruppo di scapestrati, no! Non ho detto “palestrati”, ho detto di scapestrati personaggi da Circolino post caserma dell’esercito. Siamo in effetti un esercito di trenta distinti signori toscani colla bestemmia suina facile, non ancora ben ingranati. Dico, siamo sbarcati tutti, tutti tranne una cosa. Mi hanno perso la valigia all’aeroporto.
Non ho nulla. Nulla, niente, non ho più nulla. Ho solo queste scarpette marroni da ballerina, bermuda da guerra, una canottiera color verde militare, una casacca beige. Mi ci manca un coltello e una mitraglietta e paio partita per una spedizione in incognito sulle montagne sabbiose. Invece che una femmina sembro un animale di razza strana. Ma questo ho, e me lo devo far bastare. Senza storie. Senza piagnistei.
Invece di piangere, singhiozzare, lamentarmi, mi scappa solo una bestemmia. Ci va di mezzo mio padre. Ch’era solo lì di fronte al tiro dei miei occhi, e un egiziano coi baffetti neri, neri, neri, e la mitraglietta davvero. Forse è un poliziotto. Boh? Comunque non accenna sorrisi.
Si va trotterellando nella nostra nave da crociera. Lady Carol si chiama. Ma accanto c’è la Lady Mary o Bloodymary non ho ben letto, ladies and gentlemen. Per approdarvi bisogna montare su una piattaforma, o no! No! Un tronchetto di legno che misura 10 cm per 50 di lunghezza. I piedi di ognuno inciampano uno davanti all’altro. Col rischio di cadere in acqua e non era limpida come quella del Mar Rosso e i suoi pesci tropicali, ma piuttosto torbida e dall’aspetto “flora tipica per habitat naturale dei coccodrilli”. Si deve anche scavalcare muraglie di genti colle tuniche che ti puntano dritto agli occhi e ti parlano fitto, fitto alle orecchie. Sono lì pronti a farsi una foto con te. Io ho gli occhi furtivi. Come i gatti sapete? Uno spalancato e l’altro giù. Il cuore non ho ben capito se palpita o se s’è fermato. C’è un odore qui che non avevo mai udito. Siamo sul Nilo ora, ed io osservo il mondo da un oblò nella mia stanza. La 316. In quella di fronte ci stanno zio Prospero e zia Angela. Io dormo col babbo, hanno deciso di accompagnarmi in questa avventura desertica e piena di foto memorizzate dentro. Non ho più speranza, osservo e sento troppo per buttar giù in tempo reale. Registro in testa.
Penso. E – ripenso. Che cazzo mi succede? Perché ti adoro viaggio sul Nilo?
Sai che c’è di nuovo? C’è che in questo tempo e in questo spazio, non ho paura di avere paura. E delle mie solite insicurezze. Non dovrei lo so, ma il nodo si scioglie da sé, se vedo l’effetto che fa stare lontana.
Io anarchica tu comunista e della peggior specie. Io ambiziosa tu pieno di paternali. Io qui tu lì.
Io… tutta per gli altri… tu, tutto per te.
Siamo stati presentati alla nostra Guida Egiziana il secondo giorno che eravamo a Luxor, prima di salpare. O meglio, lui si è presentato così: – Salga, prego di qua, lei è quella che non ha la valigia! -. Beh ricordo che ho pensato ad alta voce qualcosa come questo: – Bene! E questo chi diavolo è? E ora non ditemi che il discorso dei miei vestiti ha già fatto il giro di tutta la nave!? -.
Poi prende in mano un microfono a volume altissimo e annuncia: – Ciao a tutti, io sono Giorgio! Ma voi potete pure chiamarmi IL FARAONE! -. Ridacchiamo tutti.
Ho scoperto il mio posticino a prua, il terzo giorno, sulle sponde di Kom Ombo. Tutt’intorno venticello lieve in faccia, vegetazione di quella che ti rimane eterna, bella, selvaggia, con cantilene nascoste dietro gli alberi. Palme da dattero. Uccelli bianchi in volo, bambini che ti salutano, che mi salutavano ovunque. Bambini che gridavano colle mani alzate, un maledetto: – Ciao ehi sono quiii! -. Io, sempre immersa nei miei pensieri. Bambini che salpavano sulle loro scialuppe fatte di tronco d’albero e paglia e per remi le loro mani a paletta. Vengono sotto la nostra navona stile Titanic e “il sogno Americano”, e ci intonano: – O bella Ciao bella ciao, bella ciao ciao ciaooo, mi da un ghiné? Se tu avere due euro meglio, meglio! Bellaciaoooo!-.
Il resto lo tengo misterioso nel mio ventre. Perché tutto quello che percepisco non è mio fino in fondo se non arriva come un cazzotto dritto allo stomaco. Ed il mio ventre contiene tante cose. Il Faraone si accorge spesso dei miei occhi rossi e lucidi. Il capo gruppo Giovanni, mi fa compagnia nei miei 5 minuti 5, a poppa della nave, accanto al barettino coll’egiziano che sembra un grillo canterino, e il portacenere nero. Il signore col berretto di jeans e il pancione mi parla spesso di sé. Il suo amico altissimo con gli occhiali, che sbatte sempre la testa tutte le volte che si alza dal pullman, mi saluta sempre per primo ed è stato il primo che ha visto un mio primo crollo psicologico. Il signore coi capelli bianchi e corti fuma più di me e mi chiede sempre se voglio accendere. La signora bionda con gli occhi nascosti da enigmatici occhiali, è sua moglie, ed ormai mi tiene vicina come se fosse mia madre. Poi c’è la famigliola dolce e apparentemente normale, c’è lui ganzo e sbarazzino, c’è lei bella bionda e secca, e i loro due bambini. Di cui tutti possiamo fare tranquillamente un applauso per come sono stati bravi. Poi c’è il signore alto e secco, secco, con lui solo poche parole, ma ogni tanto s’infila e mi fa da scorta quando ce n’è bisogno, quando vede che mio padre è distratto ed io rimango incastrata tra zecche di persone assetate di… e poi ci sono loro i miei zii. Strani e sempre in ritardo. C’è lei che quando mi vede pensierosa, mi presta matita nera, pinzette e rasoio. E mi accompagna a comprarmi un altro paio di mutandine idiote. Quando mi vede malinconica, mi fa sbottare piano piano. E mi lascia sola al mio destino di lacrime e singhiozzi a prua. Sono un’ultra vent’enne in piena filosofia arrabbiata di vita. E se mi vede con le ginocchia agitate sotto tavolo, mi fa compagnia nelle abbuffate di dolci. Zio Prospero invece mi parla poche volte. Ma lui vedete? Mi parla a quattr’occhi senza mezzi termini, come fosse uno scugnizzo ad armi pari con me, e allora, allora un sorriso ci scappa e un – Ehm massì ok vabbè, cos’è questo? È commestibile? –
Lunghe camminate per strade e stradine. Templi color giallo scuro. Uomini di bianco vestiti coi fucili dovunque. Persone che ci tirano per un euro. Occhi neri di bambina di 10 anni che stringe cartoline. Infradito col tacchetto, piedi marroni del Sahara.
Lunghe file per altri aerei, altri aeroporti, altri lidi. Ore ed ore in mezzo al deserto. Ed io col fiato sospeso per sempre. Appesa a un filo come a dire: – E se è questa la mia scia? -. Io che scoppio a ridere senza un motivo apparente in mezzo al nulla. Tutti che mi guardano come se avessi un’insolazione. Il Faraone che indica col dito: – Non ci fate caso, è pazza! -. Io che scoppio a ridere di più.
Da Aswan ad Abu Sinbel al Cairo, beh che dire Ladies and gentlemen, ho visto cose che voi umani…Dieci ore su di un pulmann dall’alba al tramonto, sole rosso che se ne va dietro quella collina, arriva buio totale, arriva voce che dobbiamo attendere un furgone che ci deve “scortare” ripeto: scor-ta-re, fino all’altro capo del deserto, perché “non-si-sa-mai”, e dopo sonnellino generale dei militari in pensione, io no perché ho gli occhi talmente spippati che vogliono Mangiare, ripeto: man-gia-re il panorama horror di fuori dal finestrino. Il tizio che guida si ferma. -Qui potete fare pipì per chi volesse… – ( Un gabbiottino col tetto blu, in mezzo al nulla ) tutti si svegliano e dicono No grazie, tutti tranne me e zia Angela. Che ovviamente siamo affamate di conoscere il pericolo dietro l’angolo. Si va. Dentro quel bagno c’era cartaigienica pulita ovunque. Una signora scura col viso e capelli coperti chiedeva un’offerta. Siamo risalite sul pulman, siamo ripartiti scortati, chissà perché.
Ed anche se le mie risposte hanno il sapore della Parola bastarda, mi vogliono bene. Hanno imparato qui, granello per granello, a volermi bene, con tutte le mie sfaccettature. Hanno aspettato di vedere che effetto faceva il mio sorriso. Ed alla fine l’hanno visto. Alla fine, li ho accontentati. È spuntato senza documenti. E si vede che si sono affezionati. Che uno per uno vengono qui, ad aprirsi con me. Io, coi miei piccoli sospiri, e loro, coi grandi momenti del passato. Io piccola, e loro hanno scelto me, proprio me, per confidarsi. Non ci si dimenticherà mai. Continuiamo a ripeterci – Alla prossima, alla proxima – perché siamo già in viaggio, dentro di noi, un’altra volta lo stesso gruppo, un’altra volta le stesse facce, un’altra volta insieme, tutti Noi, perché alla fine ci siamo assaggiati ben bene.
Alla fine di tutto ho scoperto che non c’è bisogno di essere qualcuno per forza, o di essere grande per forza, non c’è bisogno di sentirsi cambiati dentro per forza. Alla fine di tutta questa storia, ho scoperto che io no, io non ho paura di volare!