Archivi categoria: Constatazione

DA LUXOR A HURGADA

DA LUXOR A HURGADA
È caldo. Fa caldissimo. L’aria si mischia coi colori e forma altre righe. Il cielo scompare a vista coi granelli incandescenti. Se stai immobile appare il miraggio. Lo guardi con espressione nobile. Ti scappa di strizzare un occhio. Ma non sparisce più. Fa un caldo bestia qui ladies and gentlemen.
Sono in Egitto.
Sono sbarcata insieme a un gruppo di scapestrati, no! Non ho detto “palestrati”, ho detto di scapestrati personaggi da Circolino post caserma dell’esercito. Siamo in effetti un esercito di trenta distinti signori toscani colla bestemmia suina facile, non ancora ben ingranati. Dico, siamo sbarcati tutti, tutti tranne una cosa. Mi hanno perso la valigia all’aeroporto.
Non ho nulla. Nulla, niente, non ho più nulla. Ho solo queste scarpette marroni da ballerina, bermuda da guerra, una canottiera color verde militare, una casacca beige. Mi ci manca un coltello e una mitraglietta e paio partita per una spedizione in incognito sulle montagne sabbiose. Invece che una femmina sembro un animale di razza strana. Ma questo ho, e me lo devo far bastare. Senza storie. Senza piagnistei.
Invece di piangere, singhiozzare, lamentarmi, mi scappa solo una bestemmia. Ci va di mezzo mio padre. Ch’era solo lì di fronte al tiro dei miei occhi, e un egiziano coi baffetti neri, neri, neri, e la mitraglietta davvero. Forse è un poliziotto. Boh? Comunque non accenna sorrisi.
Si va trotterellando nella nostra nave da crociera. Lady Carol si chiama. Ma accanto c’è la Lady Mary o Bloodymary non ho ben letto, ladies and gentlemen. Per approdarvi bisogna montare su una piattaforma, o no! No! Un tronchetto di legno che misura 10 cm per 50 di lunghezza. I piedi di ognuno inciampano uno davanti all’altro. Col rischio di cadere in acqua e non era limpida come quella del Mar Rosso e i suoi pesci tropicali, ma piuttosto torbida e dall’aspetto “flora tipica per habitat naturale dei coccodrilli”. Si deve anche scavalcare muraglie di genti colle tuniche che ti puntano dritto agli occhi e ti parlano fitto, fitto alle orecchie. Sono lì pronti a farsi una foto con te. Io ho gli occhi furtivi. Come i gatti sapete? Uno spalancato e l’altro giù. Il cuore non ho ben capito se palpita o se s’è fermato. C’è un odore qui che non avevo mai udito. Siamo sul Nilo ora, ed io osservo il mondo da un oblò nella mia stanza. La 316. In quella di fronte ci stanno zio Prospero e zia Angela. Io dormo col babbo, hanno deciso di accompagnarmi in questa avventura desertica e piena di foto memorizzate dentro. Non ho più speranza, osservo e sento troppo per buttar giù in tempo reale. Registro in testa.
Penso. E – ripenso. Che cazzo mi succede? Perché ti adoro viaggio sul Nilo?
Sai che c’è di nuovo? C’è che in questo tempo e in questo spazio, non ho paura di avere paura. E delle mie solite insicurezze. Non dovrei lo so, ma il nodo si scioglie da sé, se vedo l’effetto che fa stare lontana.
Io anarchica tu comunista e della peggior specie. Io ambiziosa tu pieno di paternali. Io qui tu lì.
Io… tutta per gli altri… tu, tutto per te.
Siamo stati presentati alla nostra Guida Egiziana il secondo giorno che eravamo a Luxor, prima di salpare. O meglio, lui si è presentato così: – Salga, prego di qua, lei è quella che non ha la valigia! -. Beh ricordo che ho pensato ad alta voce qualcosa come questo: – Bene! E questo chi diavolo è? E ora non ditemi che il discorso dei miei vestiti ha già fatto il giro di tutta la nave!? -.
Poi prende in mano un microfono a volume altissimo e annuncia: – Ciao a tutti, io sono Giorgio! Ma voi potete pure chiamarmi IL FARAONE! -. Ridacchiamo tutti.
Ho scoperto il mio posticino a prua, il terzo giorno, sulle sponde di Kom Ombo. Tutt’intorno venticello lieve in faccia, vegetazione di quella che ti rimane eterna, bella, selvaggia, con cantilene nascoste dietro gli alberi. Palme da dattero. Uccelli bianchi in volo, bambini che ti salutano, che mi salutavano ovunque. Bambini che gridavano colle mani alzate, un maledetto: – Ciao ehi sono quiii! -. Io, sempre immersa nei miei pensieri. Bambini che salpavano sulle loro scialuppe fatte di tronco d’albero e paglia e per remi le loro mani a paletta. Vengono sotto la nostra navona stile Titanic e “il sogno Americano”, e ci intonano: – O bella Ciao bella ciao, bella ciao ciao ciaooo, mi da un ghiné? Se tu avere due euro meglio, meglio! Bellaciaoooo!-.
Il resto lo tengo misterioso nel mio ventre. Perché tutto quello che percepisco non è mio fino in fondo se non arriva come un cazzotto dritto allo stomaco. Ed il mio ventre contiene tante cose. Il Faraone si accorge spesso dei miei occhi rossi e lucidi. Il capo gruppo Giovanni, mi fa compagnia nei miei 5 minuti 5, a poppa della nave, accanto al barettino coll’egiziano che sembra un grillo canterino, e il portacenere nero. Il signore col berretto di jeans e il pancione mi parla spesso di sé. Il suo amico altissimo con gli occhiali, che sbatte sempre la testa tutte le volte che si alza dal pullman, mi saluta sempre per primo ed è stato il primo che ha visto un mio primo crollo psicologico. Il signore coi capelli bianchi e corti fuma più di me e mi chiede sempre se voglio accendere. La signora bionda con gli occhi nascosti da enigmatici occhiali, è sua moglie, ed ormai mi tiene vicina come se fosse mia madre. Poi c’è la famigliola dolce e apparentemente normale, c’è lui ganzo e sbarazzino, c’è lei bella bionda e secca, e i loro due bambini. Di cui tutti possiamo fare tranquillamente un applauso per come sono stati bravi. Poi c’è il signore alto e secco, secco, con lui solo poche parole, ma ogni tanto s’infila e mi fa da scorta quando ce n’è bisogno, quando vede che mio padre è distratto ed io rimango incastrata tra zecche di persone assetate di… e poi ci sono loro i miei zii. Strani e sempre in ritardo. C’è lei che quando mi vede pensierosa, mi presta matita nera, pinzette e rasoio. E mi accompagna a comprarmi un altro paio di mutandine idiote. Quando mi vede malinconica, mi fa sbottare piano piano. E mi lascia sola al mio destino di lacrime e singhiozzi a prua. Sono un’ultra vent’enne in piena filosofia arrabbiata di vita. E se mi vede con le ginocchia agitate sotto tavolo, mi fa compagnia nelle abbuffate di dolci. Zio Prospero invece mi parla poche volte. Ma lui vedete? Mi parla a quattr’occhi senza mezzi termini, come fosse uno scugnizzo ad armi pari con me, e allora, allora un sorriso ci scappa e un – Ehm massì ok vabbè, cos’è questo? È commestibile? –
Lunghe camminate per strade e stradine. Templi color giallo scuro. Uomini di bianco vestiti coi fucili dovunque. Persone che ci tirano per un euro. Occhi neri di bambina di 10 anni che stringe cartoline. Infradito col tacchetto, piedi marroni del Sahara.
Lunghe file per altri aerei, altri aeroporti, altri lidi. Ore ed ore in mezzo al deserto. Ed io col fiato sospeso per sempre. Appesa a un filo come a dire: – E se è questa la mia scia? -. Io che scoppio a ridere senza un motivo apparente in mezzo al nulla. Tutti che mi guardano come se avessi un’insolazione. Il Faraone che indica col dito: – Non ci fate caso, è pazza! -. Io che scoppio a ridere di più.
Da Aswan ad Abu Sinbel al Cairo, beh che dire Ladies and gentlemen, ho visto cose che voi umani…Dieci ore su di un pulmann dall’alba al tramonto, sole rosso che se ne va dietro quella collina, arriva buio totale, arriva voce che dobbiamo attendere un furgone che ci deve “scortare” ripeto: scor-ta-re, fino all’altro capo del deserto, perché “non-si-sa-mai”, e dopo sonnellino generale dei militari in pensione, io no perché ho gli occhi talmente spippati che vogliono Mangiare, ripeto: man-gia-re il panorama horror di fuori dal finestrino. Il tizio che guida si ferma. -Qui potete fare pipì per chi volesse… – ( Un gabbiottino col tetto blu, in mezzo al nulla ) tutti si svegliano e dicono No grazie, tutti tranne me e zia Angela. Che ovviamente siamo affamate di conoscere il pericolo dietro l’angolo. Si va. Dentro quel bagno c’era cartaigienica pulita ovunque. Una signora scura col viso e capelli coperti chiedeva un’offerta. Siamo risalite sul pulman, siamo ripartiti scortati, chissà perché.
Ed anche se le mie risposte hanno il sapore della Parola bastarda, mi vogliono bene. Hanno imparato qui, granello per granello, a volermi bene, con tutte le mie sfaccettature. Hanno aspettato di vedere che effetto faceva il mio sorriso. Ed alla fine l’hanno visto. Alla fine, li ho accontentati. È spuntato senza documenti. E si vede che si sono affezionati. Che uno per uno vengono qui, ad aprirsi con me. Io, coi miei piccoli sospiri, e loro, coi grandi momenti del passato. Io piccola, e loro hanno scelto me, proprio me, per confidarsi. Non ci si dimenticherà mai. Continuiamo a ripeterci – Alla prossima, alla proxima – perché siamo già in viaggio, dentro di noi, un’altra volta lo stesso gruppo, un’altra volta le stesse facce, un’altra volta insieme, tutti Noi, perché alla fine ci siamo assaggiati ben bene.
Alla fine di tutto ho scoperto che non c’è bisogno di essere qualcuno per forza, o di essere grande per forza, non c’è bisogno di sentirsi cambiati dentro per forza. Alla fine di tutta questa storia, ho scoperto che io no, io non ho paura di volare!


è per me

La Sicilia per me è un accumulo di carusi un po’ ingenui, un po’ di strada, sono un po’ tutte e due le cose, saltano giù dai balconi dopo aver esplorato sui tetti e fatto visita a qualche vecchietto e tirato il portafoglio di pelle vera.
La Sicilia per me è, piantato qualche chiodo. La Sicilia per me è un carusazzo fatto di Karate, pugni chiusi in mosse pugilato e strike.

Ed è un sentimento arcaico collaudato in anni e anni di relazione a distanza, ognuno a casa sua.
La Sicilia per me è, gente pazza, sdentata, ai margini dei palazzi diroccati. Cani sbrindellati e padroni con le scarpe di Gucci e occhiali neri. È un quattordicenne che guida il monopattino veloce e senza preavviso. È il fruttivendolo ad ogni angolo che non ti sorride più, ma se lo guardi ride prima cogli occhi. È la sua amichetta maschiaccio, occhiali e skate e non ci vede. È l’aria frizzantina dei limoni appesi. È i pomodori seccati nel terrazzo. È quest’aria da ragazzina imprudente con le tre punte come treccine lunghe. È un appuntamento da correre veloce, col fiatone e il singhiozzo. È vestirsi per qualsiasi occasione.
La Sicilia per me, è fiori rossi e bianchi su Taormina, una controluce dalle Gole di Alcantara, abbagliante. È il silenzio di una curva a gomito a Palermo, le macchine che non tirano, è un frivolo giro in moto da Fontane Bianche a Monreale, è un Teatro Greco. Brillante. È la fila per entrare ad Agrigento.
La Sicilia per me è Siracusa. È aver visto la vita e poi la morte. È questo tira e molla che trasuda dai pori. È la signora accanto col fazzoletto davanti al rossetto rosso. È la catanese di azzurro vestita, riccia, che fa la matta. E lo è.
La Sicilia per me è un albergo a Buccheri. È dormire in tenda a Noto con uno sconosciuto. È marina di Ragusa a mezzanotte. È perdere il portafoglio e te lo riportano pari pari. È sentirsi a casa, protetta, braccata dal maresciallo. È dire qui non c’è rimasto più nessuno. La Sicilia per me è un accumulo di roccia caduta alla diga e amori franati. La Sicilia per me è la Cavalleria Rusticana e donne mascoline. É la Villa a Vizzini e ciao ciao. È una lingua tagliente, un muscolo al sugo, un richiamo preistorico, un istinto innato, il mio istinto. La Sicilia per me è stare sotto l’Etna e guardare, guardare, guardare com’è il fuoco. È un’acquila a Gela. È un amico cacciato via dal bar e portato in psichiatria, ma silente. È tutti i giorni in campagna a zappare! È fumare nella sua macchina a Santadomenica accanto ai vigili del fuoco. È quast’amico quarantenne che sembra sedicenne o viceversa. È che se cammini con lui allora sei come lui non come sei. La Sicilia per me è aria e acqua buona, quando c’è.
La Sicilia per me è, tutti insieme dai più grandi ai più piccoli, stessi giochi, stesse esperienze. È un continuo salutarsi e chiedere “E ora quando te ne vai?”

POSTPOESIA

Avevo 90 battiti al minuto per ogni incontro appassionato, se non lo ricevevo in casa lo trovavo altrove.
Ho parenti come silenziatori nella .22 Magnum, ho capito che se ci si vuol bene te la mettono sempre nel culo.
Ora niente battiti più.
Contemporaneamente dicono che sono disubbidiente, sbagliata, ingrata, invidiosa e che, sono sempre stata una che non capisce niente.
Allora io, non ti ricorderò per quello che mi dai ma per quello che dici.
Scambio l’alba col tramonto
barattano il mio rispetto col mio Manifesto.

* “Un frontale ti salva la vita, a volte è necessario”
” nessuno mi capisce ma non è colpa mia, cosa posso farci “

“IL CRONC-CRONC DEL FANTASMA E LA MIA NUOVA OSSESSIONE”


Mi hai fatto sgambetto
ed eri solo un’anima.
Ti ho sentito col piede, che t’ho pestato
ed eri solo in spirito,
perché questa è l’unica condizione
in cui potersi vedere.
Questa è la realtà
la zattera percorreva il denso stagno
acqua gelida di fine Febbraio, scheletro ben conscio,
“Poi improvvisamente sceglievo io le persone,
la musica, le case, la marca delle sigarette
Mi davano soldi in cambio del mio tempo
ma finivano continuamente
Ricordo poco o niente”
fumano gli Zen Circus, la mia nuova ossessione.

“Come se provassi amore quanto è difficile da immaginare
Come una guerra dove non si muore o una malattia
che non ha sintomi, anche senza cura
non dà dolore”
tirano petardi gli Zen Circus, cioè capisci?
Una gola come la mia, chiusa
e stangata e continuamente criticata,
ove percepire tutte le ombre che mi circondano
è l’unica maniera per non andar nei pazzi.

Cronc-Cronc-Cronc, lo senti il rosicchiare?
Ma il vaso zeppo di vermi s’é rovesciato
si sono sparpagliati
proprio mentre sono sola
proprio mentre sei solo un fantasma.

Hai spostato la copertina dei Nirvana
il piano di lavoro della tua foglia a nove punte
mentre mi hai fatto inciampare, quando mi hai pestato
eppure sei solo l’anelito del cosmo.

GUARDA A OCCHI CHIUSI

GUARDA A OCCHI CHIUSI


Avvicinati a questo schermo, non da lì,
annusa l’odere di diavolerie, sniffa la polvere depositata sullo schermo
cosa senti? La sensazione è quella là, sì hai capito
spengono e accendono le abat-jour a intermittenza, nella tua testa
prima ti chiedono poi non ti danno niente in cambio, per finire
ti chiedono di combattere, fino alla fine della tua mortalità,
voglio farti vedere le immagini, voglio che mordi la mia stessa carne,
chenesai, magari non è ancora putrida.
Capirai solo se scatterai le stesse fotografie,
lacrime si fermano come resina collosa,
gli occhi rossi, qualcosa deglutisci ti sembra piombo eh,
anche se chiudi gli occhi non m’importa, sono occhi e vedranno!
Avvicinati, annusa la sensazione, non pulirti, non disinfettarti
preparati il pippotto d’argento, inala l’aspirina tritata senza provar nulla
tanto è la sensibilità acquisita per strada, ora immagina di raggelarti
d’aver la cosa più importante della tua vita che ti chiede un regalo,
vai, entri, fai finta che non ti cada la gocciolina sulla tempia,
sorridi ai commensali, immune ai livori, partecipi, sei partecipe
e sai di non poter partecipare, hai la speranza di scappar dal retro,
ma sei raggelato, esattamente come quel cono gelato fra le sue dita,
e magari quelle volte che avresti voluto parlare la voce non fosse uscita muta
e tu, e tu, e tu, magari se non state sempre lì a chiedere
perché non siamo tutti uguali, chenesai, magari inciampi in una come me,
per puro caso,
chenesai,
guardo a occhi chiusi
da lontano.

30/05/2022