“uno strappo di foglio da un capitolo a caso del mi racconto a caso di Fifuzza”
…] Sua madre era per tutti “La brutto carattere”, “L’antiquata”. Un po’ bipolare, da che non voleva far niente a che ti sorrideva e ti aggiustava i problemi. Ti allontanava con una brutta parola, tono cupo, poi c’era quando voleva invadere tutta la privace. Malfidata e leggermente paranoica. Da che un bacio sulla guancia (perché la famiglia è la famiglia) a quando spariva. Una senza peli sulla lingua, ma come sapeva fare le impanate siciliane lei nessuno mai. Una dignitosa e d’altri tempi. Era la chioccia, la mammona, silenziosa anche nei suoi sproloqui. Chiacchierona a tavola “Poi dopo c’è tutta l’eternità per stare zitti” la sua frase ricorrente.
Il monitor si stabilizzò, i movimenti meccanici dei piedi sotto il lenzuolo smisero, e lei uscì dalla stanza. Sentiva di bruciare tempo agli altri, a sua sorella Elsa soprattutto.
Nella saletta colloqui la dottoressa che la seguiva disse a tutte e due, che non la stavano sedando, ma che non stava soffrendo, e che dovevano solo aspettare, attendere fino al momento che si sarebbe spenta da sola.
– Avevamo capito dal pronto soccorso ch’era praticamente morta –
– No –
– Al pronto soccorso stanotte, mi sembrava d’aver capito che dovevamo prendere la decisione se far staccare la spina? –
– Uhm no no, non c’è nessuna decisione che dovete assumervi voi. Vostra madre Ninfa è in coma irreversibile. Purtroppo non c’è via di ripresa. L’ictus l’ha colpita nella parte del cervello in cui dà gli impulsi più primitivi. È nel punto più profondo, non possiamo intervenire. –
Le due si guardarono, si sentirono sollevate dall’incarico, ma più confuse, uscirono dall’ospedale.
Tornarono a casa per prendere all’uscita di scuola Anjum, la quale raccontò di non essersi trattenuta da una crisi di pianto, per aver ricordato la nonna in coma ormai in fin di vita.
– Sai mamma, ho fatto un disegno, è per nonna, posso portarglielo? –
– Fai vedere, dà qua! –
– Sai oggi sono stata interrogata a geografia ma ho detto che non ho potuto studiare per via di quello che era successo –
– Sì ok hai fatto bene. Non ci pensiamo più per un po’. Siamo stanche dai. – La prese per mano e la portò correndo a un giardino pieno di giochi e di bimbi sguscianti da ogni siepe.
– Ah a proposito il disegno è bello! Solo che se è per la nonna, manca giusto giusto lei! La nonna! -.
Erano tanti colori un po’ qua e là, sullo sfondo un vulcano, dato che era il periodo che stavano studiando a scuola i vulcani coi vari esperimenti di esplosione, e tanto cielo, cielo chiaro ovunque.
Arrivarono al parco giochi, Magda andò a sedersi esausta in una panchina all’ombra di un pino, acccanto alla fontanella sempre presa d’assalto dalle api, mentre Anjum senza neanche guardarla andò a correre verso il gruppettino di bambini che giocavano a calcio in cerchio. Nell’unico punto in cui non c’erano panchine coi vecchi. Lontano dagli scivoli dei poppanti. Da bambinetti viziati piagniucolanti se non venivano accontentati all’istante dagli altrettanto genitori-bambini. Ritrovò il sorriso in un batter baleno. Ed anche se era Novembre inoltrato, gettò a terra il giubbotto, e corse per raggiungere la palla, battendo i compagni maschi in porta e in difesa.
Sua madre invece non la perdeva mai di vista, le stava facendo un ritratto cogli occhi. L’osservava in tutte le sfaccettature, distraendosi dal pensiero fisso, se no il suo volto si sarebbe rovesciato in una cascata di lacrime. Non voleva fare brutta figura davanti ai suoi compagni, davanti ai genitori dei suoi amici. Il vento le passava tra i capelli poi percorreva la stessa traiettoria della bambina lì sullo sfondo a passare la palla e a dar spinte ribelli se solo vi era un fuori gioco.
Anjum, 10 anni ben piantati nei mille capelli sciolti, la chiamano “Polipo”. Per quel modo assurdo di saltare all’ingiù sul letto, con le braccia appicicate sulla coperta, manco avesse i tentacoli. La piccola sembrava essere più forte di mamma e papà messi insieme. Loro erano fin troppo emotivi, fragili e sconclusionati, ancora alle prese con il definire le loro identità. Invece lei no! Lei era ben centrata. Sicura di sé. Non l’aveva mai sentita piagniucolare a vanvera quando era nata, figuriamoci adesso che era alle elementari. Lei corre, sembra un’antilope, non la puoi prendere, puoi essere ghepardo o pantera quanto ti pare, ma con quelle gambe lunghe lì, con quella schiena agile lì, con quelle spinte in verticale e in lungo, non ce la puoi fare. Quando prende la rincorsa si trasforma, è antilope. Dietro tutti gli altri bambini che giocano ad acchiapparella e ridono, e ride, come se esistessero solo loro.
Nei giorni successivi la madre si stabilizzò nella stanza di rianimazione, la N°14, coma irreversibile. Nelle stanze adiacenti altri come lei, in un sonno perenne tra tubi e rumori e polmoni artificiali.
Una mattina, nella scuola della figlia, si fermò per un attimo a far due chiacchiere con un gruppettino di mamme. Sapeva solo una cosa: non doveva smettere di fare cose, se si fosse fermata la tristezza e la depressione post trauma per ciò che aveva vissuto il 9 Novembre, l’avrebbe presa, avvinghiata in una morsa come fa il Boa alle sue vittime.
Quindi si fermò lì al cancello, e una di queste donne, neanche tanto ben distinte, le chiese a brucia pelo:- E ora? Ora che farai? –
Tutte le altre fecero spallucce e alzarono gli occhi al cielo. Ma Magda capì bene, capì molto bene l’affermare di quella domanda. Capì perfettamente che quello non poteva essere più l’ambiente per lei. Che quelle persone non c’entravano nulla con lei. E che… ancora non l’aveva ancora “seppellita” e già il gruppetto-mamme si stava chiedendo cosa potesse fare nel futuro, o cosa penserà di fare: un viaggio? Una gita con tour operetor per distrarsi dallo stress? Riprendersi la libertà come se questa le fosse mai stata sottratta? O un lavoro? Già perché no? Ora che finalmente secondo loro, si sarebbe sentita più libera, poteva anche pensare a cercarsi un lavoro! Così da passare da una galera
(l’accudimento dell’anziana madre) ad un’altra galera (il lavoro da sottoposti). Le stava venendo il voltastomaco! A quell’affermazione decise all’istante che non le avrebbe mai più dato un briciolo del suo tempo prezioso.
Le rispose con un sogghigno, in cui fece solo trasparire mistero, e trasformò quel momento d’imbarazzo in qualcosa di poetico.
– Bah che dire, ora che farò? Ora vado a prendere il pane, il biglietto del tram, poi vado a trovarla all’ospedale, e poi cercherò di esser qui in tempo per l’uscita della classe, visto che nessuno si vuol prendere la briga di prendere Anjum per un giorno intero. Ciao ragazze! –
Nel tragitto in tram, le venne il terribile groppo alla gola, classico sintomo di un inizio di depressione. Di una tristezza paragonabile al fondo più fondo che c’è. Un buco di galleria, dove c’è luce che ti insegue, ma tu scappi e scappi e ti ficchi dentro al buio. Poi gli occhi le si riempirono di lacrimoni. Come non aveva mai pianto da anni. La cosa strana era che più si sentiva angosciata e depressa, più sentiva che la presenza di sua madre svanisse. Più si sentiva invadere da quel sentimento causato dal chiacchiericcio di quella stupida, più si sentiva abbandonata persino dallo spirito di sua madre, la sentiva lontana lontana, irraggiungibile.
Udiva ancora quella frase “E ora che farai?” e si sentiva pervadere dal basso ventre una sensazione di panico. Qell’idiota, madre di famiglia, con quella parolina fuori luogo, e con il tacito assenso misto a menefreghismo, delle altre, stava contribuendo a farle venire un attacco di panico.
D’improvviso il tram si fermò, qualcuno le passò un fazzoletto, poi ripartì. Senza rendersene conto sganciò un sorriso, e sua madre apparve nel vetro del tram, tra un manifesto e un’altro. C’era lei, che rideva, e la indicava con un dito, e rideva e rideva, come quando era bambina.
Aveva una camicetta bianca ed i capelli scuri in un’acconciatura vaporosa. Se ne stava lì sul finestrino enorme del tram, Magda si sentì invadere da una vampata di calore. Non smetteva più di sorridere. Ripensò a quella giovane madre al cancello della scuola, a come sia stato possibile che da una bocca così sottile, fatta di sottiletta rosina, sia potuta esplodere una bomba di fuoco come dalla gola di un dragone. Boom e boom e splasch, fuoco ramificato più bollente di lava vivida. Smise di sorridere di botto. Diventò seria tutta d’un pezzo. All’istante la figura di sua madre sparì.
Finì la corsa del tram davanti all’ingresso principale dell’ospedale. Era buio ormai. Le faceva fatica vedere che ore fossero, si sentiva un cane sciolto, senza più doveri di impegni, senza avanzare il passo per non tardare a casa, senza più che nessuno l’aspettasse per la cena. Un cane sciolto così di botto. E tutta quella libertà improvvisa, non sapeva più come gestirla. Ne ebbe diniego. Se solo avesse potuto pigiare un pulsante per riavvolgere il nastro, nastro tutto ingarbugliato, fino a qualche giorno prima. Ebbe paura. Pregò in silezio di poterla salvare, di poterla aiutare un po’ di più.
All’angolo tra il muretto e le porte a vetro dell’ingresso principale, c’erano dei barboni ubriachi. La fissarono, lei no, era dritta verso il suo intento: entrare, scivolare lungo gli infiniti corridoi, pigiare il pulsante bianco dell’ascensore, arrivare al Primo Piano Settore B.
Le porte scorrevoli si aprirono, e una donna coi ricci biondi con le sfumature turchesi, le si parò davanti e gridò:- Scusi ehi ehi lei dove va? -. Aveva mascherina a punta bianca che copriva metà viso fino al mascara delle sue doppie ciglia.
– Io? Dovrei andare in rianimazione. Ho mia madre lì… –
– Mi esibisca il Green Pass per cortesia! –
– Cosa? Che? Io ehm, non ce l’ho, e poi mi scusi ma è un paio di giorni che veniamo tutti i giorni qui e fino a ieri eh oh! E nessuno ce l’ha mai chiesto! Ch’é cambiato da ieri ad oggi? –
– Senta, io non so che cosa sia successo ieri, cosa sia andato storto, ma ieri io non c’ero, ci sono oggi, e lei non la faccio passare se non ce l’ha! -.
Rimase di stucco, un groppo in gola, stava per scattare come non aveva fatto da anni, aveva un nervosismo dentro incontenibile. Fece un passo indietro per timore di saltarle sulla scrivania. Altre vecchiette dietro di lei si frugavano dentro la borsa disperate alla ricerca del foglio per il lasciapassare, si sentì anche una cantilena a bassa voce – La prego, non mi dica che ho fatto un viaggio a vuoto, sono piena di dolori alle ossa, voglio solo andare a trovare mio marito, non so se rimarrà in questo mondo fino a domani –
– Anche mia madre non so se riuscirà a passare questa notte, per favore! -, un uomo scappò dentro dicendo di seguirlo e mandare tutti a quel paese, – Dai vieni, vieni per di qua, taglia di su e non ti riprendono più, non hanno nessun diritto di infierire sui dolori della gente, vai tranquilla! – la tipa con capelli turchesi e doppie ciglie ripiegate e becco da oca si attaccò al telefono…