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E’ una nuova raccolta di pensieri, freschi, tra un impegno e un altro, appena mi siedo in 5 minuti, e senza l’aiutino di nient’altro, solo quello che vedo. Lucida-mente.

Fifuzza

“uno strappo di foglio da un capitolo a caso del mi racconto a caso di Fifuzza”

…] Sua madre era per tutti “La brutto carattere”, “L’antiquata”. Un po’ bipolare, da che non voleva far niente a che ti sorrideva e ti aggiustava i problemi. Ti allontanava con una brutta parola, tono cupo, poi c’era quando voleva invadere tutta la privace. Malfidata e leggermente paranoica. Da che un bacio sulla guancia (perché la famiglia è la famiglia) a quando spariva. Una senza peli sulla lingua, ma come sapeva fare le impanate siciliane lei nessuno mai. Una dignitosa e d’altri tempi. Era la chioccia, la mammona, silenziosa anche nei suoi sproloqui. Chiacchierona a tavola “Poi dopo c’è tutta l’eternità per stare zitti” la sua frase ricorrente.

Il monitor si stabilizzò, i movimenti meccanici dei piedi sotto il lenzuolo smisero, e lei uscì dalla stanza. Sentiva di bruciare tempo agli altri, a sua sorella Elsa soprattutto.
Nella saletta colloqui la dottoressa che la seguiva disse a tutte e due, che non la stavano sedando, ma che non stava soffrendo, e che dovevano solo aspettare, attendere fino al momento che si sarebbe spenta da sola.
– Avevamo capito dal pronto soccorso ch’era praticamente morta –
– No –
– Al pronto soccorso stanotte, mi sembrava d’aver capito che dovevamo prendere la decisione se far staccare la spina? –
– Uhm no no, non c’è nessuna decisione che dovete assumervi voi. Vostra madre Ninfa è in coma irreversibile. Purtroppo non c’è via di ripresa. L’ictus l’ha colpita nella parte del cervello in cui dà gli impulsi più primitivi. È nel punto più profondo, non possiamo intervenire. –
Le due si guardarono, si sentirono sollevate dall’incarico, ma più confuse, uscirono dall’ospedale.
Tornarono a casa per prendere all’uscita di scuola Anjum, la quale raccontò di non essersi trattenuta da una crisi di pianto, per aver ricordato la nonna in coma ormai in fin di vita.
– Sai mamma, ho fatto un disegno, è per nonna, posso portarglielo? –
– Fai vedere, dà qua! –
– Sai oggi sono stata interrogata a geografia ma ho detto che non ho potuto studiare per via di quello che era successo –
– Sì ok hai fatto bene. Non ci pensiamo più per un po’. Siamo stanche dai. – La prese per mano e la portò correndo a un giardino pieno di giochi e di bimbi sguscianti da ogni siepe.
– Ah a proposito il disegno è bello! Solo che se è per la nonna, manca giusto giusto lei! La nonna! -.
Erano tanti colori un po’ qua e là, sullo sfondo un vulcano, dato che era il periodo che stavano studiando a scuola i vulcani coi vari esperimenti di esplosione, e tanto cielo, cielo chiaro ovunque.
Arrivarono al parco giochi, Magda andò a sedersi esausta in una panchina all’ombra di un pino, acccanto alla fontanella sempre presa d’assalto dalle api, mentre Anjum senza neanche guardarla andò a correre verso il gruppettino di bambini che giocavano a calcio in cerchio. Nell’unico punto in cui non c’erano panchine coi vecchi. Lontano dagli scivoli dei poppanti. Da bambinetti viziati piagniucolanti se non venivano accontentati all’istante dagli altrettanto genitori-bambini. Ritrovò il sorriso in un batter baleno. Ed anche se era Novembre inoltrato, gettò a terra il giubbotto, e corse per raggiungere la palla, battendo i compagni maschi in porta e in difesa.
Sua madre invece non la perdeva mai di vista, le stava facendo un ritratto cogli occhi. L’osservava in tutte le sfaccettature, distraendosi dal pensiero fisso, se no il suo volto si sarebbe rovesciato in una cascata di lacrime. Non voleva fare brutta figura davanti ai suoi compagni, davanti ai genitori dei suoi amici. Il vento le passava tra i capelli poi percorreva la stessa traiettoria della bambina lì sullo sfondo a passare la palla e a dar spinte ribelli se solo vi era un fuori gioco.
Anjum, 10 anni ben piantati nei mille capelli sciolti, la chiamano “Polipo”. Per quel modo assurdo di saltare all’ingiù sul letto, con le braccia appicicate sulla coperta, manco avesse i tentacoli. La piccola sembrava essere più forte di mamma e papà messi insieme. Loro erano fin troppo emotivi, fragili e sconclusionati, ancora alle prese con il definire le loro identità. Invece lei no! Lei era ben centrata. Sicura di sé. Non l’aveva mai sentita piagniucolare a vanvera quando era nata, figuriamoci adesso che era alle elementari. Lei corre, sembra un’antilope, non la puoi prendere, puoi essere ghepardo o pantera quanto ti pare, ma con quelle gambe lunghe lì, con quella schiena agile lì, con quelle spinte in verticale e in lungo, non ce la puoi fare. Quando prende la rincorsa si trasforma, è antilope. Dietro tutti gli altri bambini che giocano ad acchiapparella e ridono, e ride, come se esistessero solo loro.
Nei giorni successivi la madre si stabilizzò nella stanza di rianimazione, la N°14, coma irreversibile. Nelle stanze adiacenti altri come lei, in un sonno perenne tra tubi e rumori e polmoni artificiali.
Una mattina, nella scuola della figlia, si fermò per un attimo a far due chiacchiere con un gruppettino di mamme. Sapeva solo una cosa: non doveva smettere di fare cose, se si fosse fermata la tristezza e la depressione post trauma per ciò che aveva vissuto il 9 Novembre, l’avrebbe presa, avvinghiata in una morsa come fa il Boa alle sue vittime.
Quindi si fermò lì al cancello, e una di queste donne, neanche tanto ben distinte, le chiese a brucia pelo:- E ora? Ora che farai? –
Tutte le altre fecero spallucce e alzarono gli occhi al cielo. Ma Magda capì bene, capì molto bene l’affermare di quella domanda. Capì perfettamente che quello non poteva essere più l’ambiente per lei. Che quelle persone non c’entravano nulla con lei. E che… ancora non l’aveva ancora “seppellita” e già il gruppetto-mamme si stava chiedendo cosa potesse fare nel futuro, o cosa penserà di fare: un viaggio? Una gita con tour operetor per distrarsi dallo stress? Riprendersi la libertà come se questa le fosse mai stata sottratta? O un lavoro? Già perché no? Ora che finalmente secondo loro, si sarebbe sentita più libera, poteva anche pensare a cercarsi un lavoro! Così da passare da una galera
(l’accudimento dell’anziana madre) ad un’altra galera (il lavoro da sottoposti). Le stava venendo il voltastomaco! A quell’affermazione decise all’istante che non le avrebbe mai più dato un briciolo del suo tempo prezioso.
Le rispose con un sogghigno, in cui fece solo trasparire mistero, e trasformò quel momento d’imbarazzo in qualcosa di poetico.
– Bah che dire, ora che farò? Ora vado a prendere il pane, il biglietto del tram, poi vado a trovarla all’ospedale, e poi cercherò di esser qui in tempo per l’uscita della classe, visto che nessuno si vuol prendere la briga di prendere Anjum per un giorno intero. Ciao ragazze! –
Nel tragitto in tram, le venne il terribile groppo alla gola, classico sintomo di un inizio di depressione. Di una tristezza paragonabile al fondo più fondo che c’è. Un buco di galleria, dove c’è luce che ti insegue, ma tu scappi e scappi e ti ficchi dentro al buio. Poi gli occhi le si riempirono di lacrimoni. Come non aveva mai pianto da anni. La cosa strana era che più si sentiva angosciata e depressa, più sentiva che la presenza di sua madre svanisse. Più si sentiva invadere da quel sentimento causato dal chiacchiericcio di quella stupida, più si sentiva abbandonata persino dallo spirito di sua madre, la sentiva lontana lontana, irraggiungibile.
Udiva ancora quella frase “E ora che farai?” e si sentiva pervadere dal basso ventre una sensazione di panico. Qell’idiota, madre di famiglia, con quella parolina fuori luogo, e con il tacito assenso misto a menefreghismo, delle altre, stava contribuendo a farle venire un attacco di panico.
D’improvviso il tram si fermò, qualcuno le passò un fazzoletto, poi ripartì. Senza rendersene conto sganciò un sorriso, e sua madre apparve nel vetro del tram, tra un manifesto e un’altro. C’era lei, che rideva, e la indicava con un dito, e rideva e rideva, come quando era bambina.

Aveva una camicetta bianca ed i capelli scuri in un’acconciatura vaporosa. Se ne stava lì sul finestrino enorme del tram, Magda si sentì invadere da una vampata di calore. Non smetteva più di sorridere. Ripensò a quella giovane madre al cancello della scuola, a come sia stato possibile che da una bocca così sottile, fatta di sottiletta rosina, sia potuta esplodere una bomba di fuoco come dalla gola di un dragone. Boom e boom e splasch, fuoco ramificato più bollente di lava vivida. Smise di sorridere di botto. Diventò seria tutta d’un pezzo. All’istante la figura di sua madre sparì.
Finì la corsa del tram davanti all’ingresso principale dell’ospedale. Era buio ormai. Le faceva fatica vedere che ore fossero, si sentiva un cane sciolto, senza più doveri di impegni, senza avanzare il passo per non tardare a casa, senza più che nessuno l’aspettasse per la cena. Un cane sciolto così di botto. E tutta quella libertà improvvisa, non sapeva più come gestirla. Ne ebbe diniego. Se solo avesse potuto pigiare un pulsante per riavvolgere il nastro, nastro tutto ingarbugliato, fino a qualche giorno prima. Ebbe paura. Pregò in silezio di poterla salvare, di poterla aiutare un po’ di più.
All’angolo tra il muretto e le porte a vetro dell’ingresso principale, c’erano dei barboni ubriachi. La fissarono, lei no, era dritta verso il suo intento: entrare, scivolare lungo gli infiniti corridoi, pigiare il pulsante bianco dell’ascensore, arrivare al Primo Piano Settore B.
Le porte scorrevoli si aprirono, e una donna coi ricci biondi con le sfumature turchesi, le si parò davanti e gridò:- Scusi ehi ehi lei dove va? -. Aveva mascherina a punta bianca che copriva metà viso fino al mascara delle sue doppie ciglia.
– Io? Dovrei andare in rianimazione. Ho mia madre lì… –
– Mi esibisca il Green Pass per cortesia! –
– Cosa? Che? Io ehm, non ce l’ho, e poi mi scusi ma è un paio di giorni che veniamo tutti i giorni qui e fino a ieri eh oh! E nessuno ce l’ha mai chiesto! Ch’é cambiato da ieri ad oggi? –
– Senta, io non so che cosa sia successo ieri, cosa sia andato storto, ma ieri io non c’ero, ci sono oggi, e lei non la faccio passare se non ce l’ha! -.
Rimase di stucco, un groppo in gola, stava per scattare come non aveva fatto da anni, aveva un nervosismo dentro incontenibile. Fece un passo indietro per timore di saltarle sulla scrivania. Altre vecchiette dietro di lei si frugavano dentro la borsa disperate alla ricerca del foglio per il lasciapassare, si sentì anche una cantilena a bassa voce – La prego, non mi dica che ho fatto un viaggio a vuoto, sono piena di dolori alle ossa, voglio solo andare a trovare mio marito, non so se rimarrà in questo mondo fino a domani –
– Anche mia madre non so se riuscirà a passare questa notte, per favore! -, un uomo scappò dentro dicendo di seguirlo e mandare tutti a quel paese, – Dai vieni, vieni per di qua, taglia di su e non ti riprendono più, non hanno nessun diritto di infierire sui dolori della gente, vai tranquilla! – la tipa con capelli turchesi e doppie ciglie ripiegate e becco da oca si attaccò al telefono…

Basta coi Brutti

Peccato! Avreste potuto passare persino per brave persone. Perfino per collaborative. È stato un peccato. Non avete colto al volo le 10 chances che vi ho dato, per poter passare alla storia come belle persone. Che danno quella mano in più. Invece no, non avete colto le possibilità. Ed io ho perso tempo, mi sono contornata di bruttezza e non di bellezza. Basta con tutta questa bruttezza! Là fuori è pieno di gente che brilla! Basta mischiarmi coi brutti, coi non appassionati, con chi non vuole partecipare e non si schiera mai. Con chi ride sempre e si volta sempre dall’altra parte. Ed io posso essere più Bella di così!

e se ricominciassi ad ascoltare Alanis e vaffanculo a chi non c’entra nulla con me!!

BRUTTO CARATTERE

( 23 del mese )
“BRUTTO CARATTERE”

Che vi piaccia oppure no sentirlo, lei quella notte aveva la carne coriacea! Consistenza della materia del cuoio. Dura come una bistecca prima di essere cucinata. Il primo e il secondo strato di pelle era tiglioso, non riusciva ad afferrarlo col pollice e l’indice. Pizzicotti a vuoto. Ma s’incaponì e ci riprovò una, due, tre volte, era come cercare di afferrare tra le dita la superficie di un tavolo. Eppure quelle parole “Provi a dare dei piccoli pizzicotti al collo per vedere se riapre gli occhi”, le risuonavano come un rimbombo nel tunnel della sua mente. I minuti passavano anche senza che lei li vedesse scorrere nell’orologio grosso al muro di fronte. Non li teneva d’occhio ma li sentiva velocizzare dal tumulto del cuore. Uno scorrere del tempo di un’altra dimensione.
“Allora, provi a far così, provi a dare dei piccoli pizzicotti al collo per vedere se riapre gli occhi” non sentendo risposta l’operatrice al telefono, continuò stavolta con voce più forte, voleva catapultarsi dal cellulare in quel pavimento, voce razionale ma quasi preoccupata: “Pronto? Allora? C’è ancora? Che mi dice, gli occhi li riapre? Altri movimenti?”
“No, uhmm no no, io qui vedo che…”
“Che? Guardi che se non vede più muovere il petto, su e giù, le devo spiegare le manovre di rianimazione artificiale”
“Eh? No, no, anzi il petto si muove tantissimo, respira eccome! Mi sono spiegata? È questo il punto, sembra che dorma, come, come se… russasse! Ecco ecco la sta sentendo? Sente sente? Respira, russa, dorme, gli occhi cavolo però non li riapre…”. Poi riavvicinò le dita al collo che cercava con tutte le sue forze di tener su, per dare altri pizzicotti, uno, due, tre, ma niente, gli occhi erano sempre serrati, blu, immobili senza dar il ben che minimo movimento. La cosa strana era che la gamba ogni tanto oscillava d’impulso, il petto era agitato, il russare sembrava una parvenza di vita, ma gli occhi erano come cuciti col filo blu.
Poi d’improvviso un rumore tipo gorgoglìo dallo stomaco, venir piano piano su, fino ad uscire dalla bocca, anch’essa serrata, come se fosse disegnata dalla punta di un pennarello fine. Pareva dovesse uscir fuori chissà che, dal rumore di rantolo, invece uscì lentamente un rivolo di sostanza semisolida, colore scuro.
“Ma che? Oddio sta vomitando! Aspetti sento che sta quasi soffocando dal suo vomito, fa tipo bolle, aspetti cerco di rigirarla, oddio ma è pesantissima, non ce la faccio, aspetti cerco! Ecco, ecco, l’ho messa sopra di me, tipo a sedere, il viso glielo sto tenendo girato di lato… ma è duro, non si vuole girare! non so sento tipo… come se la mollassi si rimette rigida e può soffocare… Ma cos’è? Oddio cos’è?”
“Cos’è cosa? Me lo descrivi?”
“Sta uscendo dalla bocca una cosa nera, uhmm no marrone scura, forse sta vomitanto il caffè? Sa lei beve tanto Orzo la mattina a colazione, forse è l’Orzo? Secondo lei?”
“Non lo so… ah è una roba scura? Ah no io così per telefono non saprei dirle… Comunque mi stanno comunicando che l’ambulanza è già quasi sotto casa vostra, solo che non riescono a trovar bene il numero civico”; e la linea telefonica s’interruppe bruscamente.
La giovane donna iniziò a tremare seriamente, si sentiva terrorizzata. Sapeva che la cosa era sempre più grave. In maniera meccanica si concentrava soltando a prenderle quella pelle bluastra del collo, senza successo però, non era pizzicotto che le veniva bene! Piano piano stava realizzando che pure la mano era chiusa in uno strano pugno, con le dita secche, fredde, disidratate di sangue. Ormai era passata più di mezz’ora da quando era accaduto tutto. Le avevano detto al telefono parole chiavi tipo: “se non respira deve farle la rianimazione. Massaggio cardiaco. Se non risponde vuol dire che non è vigile. Arriviamo subito!” E invece si sentiva persa, tremendamente sola e responsabile.
Il cellulare si illuminò squillando. L’operatrice del 118 l’aveva richiamata per fortuna. Perché lei si sentiva bloccata.
“Pronto? Com’è la situazione lì?”
“Menomale mi ha richiamato lei! Non sapevo cosa fare. La situazione è esattamente come poco fa:dorme, non si sveglia, do colpetti alla guancia, ma non riapre gli occhi, ha continuato a vomitare questa roba marrone quasi nera, sto cercando di non farla soffocare, ma proprio non mi spiego perché non intende svegliarsi!”
“Mi stanno dicendo se lì con lei c’è qualcuno, se può scendere giù ad aprire la sbarra condominiale?”
C’è mia figlia qui con me, ma no no, ha solo 10 anni, è buio giù, boh ok scendo io! Tu rimani qui, tienila girata così, ti prego forte, se no soffoca… Arrivo più presto che posso!”

https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/22_marzo_31/putin-il-murale-dostoevskij-napoli-da-speranza-jorit-ho-fatto-piu-io-che-governo-italiano-348c9d5a-b0d5-11ec-b739-ab6d18dd2a9d.shtml



“Eroe o pezzo di fango, non c’era via di mezzo per me, per l’uomo comune, dico, è vergogna infangarsi, ma l’eroe sta troppo in alto perché si possa infangare del tutto, per conseguenza si può stare nel fango” Fedor Dostoevskij
Capitano a volte incontri con persone a noi assolutamente estranee, per le quali proviamo interesse fin dal primo sguardo, all’improvviso, in maniera inaspettata, prima che una sola parola venga pronunciata.” Fedor Dostoevskij
“Se avete in animo di conoscere un uomo, allora non dovete far attenzione al modo in cui sta in silenzio, o parla, o piange; nemmeno se è animato da idee elevate. Nulla di tutto ciò! – Guardate piuttosto come ride.” Fedor Dostoevskij
“L’assassinio legale è incomparabilmente più orrendo dell’assassinio brigantesco. Chi è assalito dai briganti, chi è sgozzato di notte spera di potersi salvare fino all’ultimo momento. Tutta quest’ultima speranza, con la quale è dieci volte più facile morire, viene tolta con certezza dalla condanna a morte.” Fedor Dostoevskij
“Non passione ci vuole, ma compassionecapacità cioè di estrarre dall’altro la radice prima del suo dolore e di farla propria senza esitazione.” Fedor Dostoevskij
“L’uomo è infelice perché non sa di esserefelice. Soltanto per questo. Questo è tutto, tutto! Chi lo comprende sarà subito felice, immediatamente, nello stesso istante.” (La mia preferita)- Fedor Dostoevskij

CORIANDOLO

“CORIANDOLO”

Da un tubetto di colla hai creato la luna a mezzogiorno
piano piano proprio non sai camminare
ti ho visto dal fondo di un buco
hai sparato le tue cartucce ad acqua,
sui binari dei tuoi trenini
hai sempre camminato coi ginocchi
bucando tutti i pantaloni
senza aspettarmi.

Non ti dirò mai, mai, e poi mai rimani
noi siamo così, viaggiatrici a piccoli passi
viandanti d’oro nel deserto,
il segno che c’è arrivato è:
bisogna andare al tremore della fiamma
di campagne qui, ne abbiam viste già molte
basta verde, vogliamo il giallo!

(Guerriera dal cuore zelante
capelli come rose rosse
preziosi quei fili di rame)*

Non hai mai avuto paura del buio
nemmeno dei lividi sui gomiti
nelle parole il nome di tuo padre
nei tuoi occhi neri come il carbone
ti sei accorta che non mi assomigli
vai dal salato al dolce senza timore
hai le guance come nelle mie tasche
colorite di coriandoli fissati col vinavil.

(Ho detto a Coraline che può crescere,
prendere le sue cose e poi partire…
Ma Coraline non vuole mangiare no,
[…]
Sarò l’acqua da bere
il significato del bene,
sarò anche un soldato,
[…]
E in cambio non chiedo niente,
soltanto un sorriso,
ogni tua piccola lacrima
è oceano sopra il mio viso)*

( *Cit. Dei Maneskin )



FRANCOBOLLO

“FRANCOBOLLO”


Ti voglio bene, ti voglio tanto bene,

in fondo hai un visino così, così…
hai un viso tra l’imbronciato e il sorridente.
Il broncio lo hai ottenuto da me
vuol dire che ti ho toccato duramente,
più di tutti gli altri, gli altri…
“E son tornata per vederti andare”*
con la tua carnagione da merendina al cacao
le tue caramelle e la barba da rifare
io con la carnagione da scaffale di surgelati
le scarpe sporche e un vecchio francobollo
per le parole da spedire al creatore.
La prima volta con la valigia piena di sogni
scamiciato, senza problemi… i problemi…
e ora che ci penso, il tuo sorriso
anche il sorriso lo hai ottenuto da me.
Questo fa sorridere.

[* Citazione Roberto Vecchioni ]

XII Capitolo

[ Preso dal mucchio, non è finito, per il mio piccolo e unico fan ]

XII

Quei gatti stavano mangiando emettendo dei versi striduli e nasali quasi come fossero altre creature, non di certo semplici gatti. Dopo qualche minuto di silenzio, si sentiva solo lo sgranocchiare dei croccantini tra i canini aguzzi. Poi ancora fischi dal profondo della loro gola, poi un urlo, poi una parolaccia felina in un canto lirico, come un avvertimento, come la calma prima della tempesta. E la tempesta arrivò, inesorabile: un graffio bello e buono al ventre del gatto dalla coda vaporosa. Lui emise un grido pari alla strega delle fiabe. Sembrava volesse parlare. Spettrale. Ancora soffiava, mettendosi appiattito a terra, coda quasi scomparsa, fra le zampe. Mentre quello cicciuto bianco e nero gli si mise alto alto davanti, a un palmo dai baffi. Quello piccolo rosso, faceva razzia di cibo.
Tra grugniti vari, soffiate, graffi allo stomaco, noi decidemmo lì all’istante, che avremmo continuato con impegno, quello per cui eravamo venuti a fare. Avremmo dopo la scuola, portato cibo ai gatti dei cassonetti, lui dopo il turno alle Poste, avrebbe ripulito il posto, l’immondezzaio che c’era.
Tornavo a casa da scuola con un peso in meno, una leggerezza pari ad una piuma. La mia amica veniva spesso con me, ormai si era affezionata. A quell’affare del far partire una piccola ma consistente, colonia felina, nel nostro paesello dimenticato da Dio. Ricordo una volta, che fissai prima con Alfredo, lei si arrabbiò, forse ingelosita, allora venne di corsa a casa mia tutta scapigliata, senza occhiali, sbandò e inciampò prima su un motorino lì parcheggiato, un vecchio “Ciao”, poi da terra fu assalita dalla mia gatta. Le saltò addosso sulla schiena, poi sulla faccia, con le zampette posteriori nel discendere, la graffiò terribilmente sulla guancia fino al labbro superiore. Gettò un urlo che si sentì per tutto il quartiere.
– Bettt! Cattiva cattiva cattiva cattiva! –
– Che succede? – accorsi fuori e vidi Giusy per terra fra la polvere gialla sulla camicia bianca, a pancia sotto. La guardai meglio, vidi il sangue che le scorreva sul volto. Lei si alzò su, senza neppure degnarmi di uno sguardo, si mise a rincorrere Bet. Io ridevo. Ridevo a più non posso. Mentre lei continuava a ripetere che era una gatta Cattiva.
Bet ad un certo momento s’impuntò, per la prima volta le sentii fare un miagolio piuttosto forte, la guardò mezzo secondo con due pupille grosse così, le saltò su un’altra volta. Fece un balzo di un metro e mezzo grazie all’aiuto della sua coda lunga, ormai un po’ pendente verso sinistra, per colpa delle grinfie del Mastino napoletano, quel Cash. La puntò direttamente gli occhi, centrandogliene uno. Le fece un graffietto piccolo nel dotto lacrimale inferiore. Per Giusy fu la fine. Si mise a urlare, a piangere, a dire che la gatta era pericolosa, che dovevo farla guardare da uno specialista, forse prima o poi c’avrebbe assalito di notte! Bet pareva imbizzarrita, aveva il pelo tutto arruffato e la coda grossa come quella degli scoiattoli. S’era gonfiata, la linguetta entrava e usciva dalla bocca. Il musino e le orecchie all’indietro. Faceva paura.
Giusy se ne dovette andare. Io esclamai solo:- Uno a Zero per Bet -.
Era cresciuta la mia piccoletta, si stava facendo sempre più sfilata. I suoi graffi sempre più taglienti, i suoi morsi cercavano di prendere il polso, stringere fino all’arteria. Il male era sempre più insopportabile. Fu così che io ci giocavo sempre più di rado.
Il tempo trascorreva velocissimo, fra le ultime interrogazioni a scuola prima della grande fine, i miei bisticci con l’inseparabile Giusy, e le uscite col postino più dolce che abbia mai conosciuto. Sino allo sbucare in punta di piedi della impollinata primavera inoltrata e dell’Aprile. Col sentire le campane delle dodici Chiese presenti nel paese, dal boschetto Monnalisa, sciamarono delle api. Sentì il bisogno di cambiar casa la vecchia ape regina seguita dalle operaie, in una sorta di “febbre della sciamatura”, e queste esploratrici si misero fitte fitte a cercare il posto ideale.
Non potetti credere ai miei stessi occhi, si misero a grappolo proprio sul cornicione del mio portone. Entravano ed uscivano da un forellino all’ombra una alla volta. Facevano da una sponda all’altra e si fiondavano a proiettile là dentro, Bet sentì quel rumore da sopra camera mia. Accorse, e le vide immediatamente, io ero immobile. Ne avevo così tanta paura che le mie gambe rimasero impietrite. Poi con la coda dell’occhio vidi Bet che faceva dei versi strani, tipo metallici con la voce felina, e come una perfetta macchina da guerra …… TO BE CONTINUED

X Capitolo

[ Non è l’inizio e non è finito, è solo preso dal mezzo, ed è per il mio piccolo ed unico Fan ]

X

Tornai a casa quando era già buio inoltrato. Il lampione della strada era spento, c’eravamo abituati noi del quartiere, era sempre rotto. E anche quando lo aggiustavano, dopo tanto ci pensavano gli scugnizzi a tirargli qualche pietra, fulminandolo un’altra volta. Michelino, i gemellini e gli altri, non se ne facevano sfuggire una. Ci aiutavamo a camminare coi fanali delle macchine quando passavano. Se non passavano, camminavamo lo stesso spediti, sicuri d’ogni passo nel buio pesto, come pipistrelli. Trovai la porta chiusa stranamente. Bussai forte, con la gattina in braccio che voleva già saltar giù e correr via da qualche parte. Mi graffiava tutti i polsi, s’impigliava ad artigli spaiati ai miei lunghi ricci, ma la stringevo fortissimo, mi fece un taglio profondo al pollice, la presi per la collottola, stavo per cedere e mollarla, non ce la facevo proprio più, i suoi graffi frizzavano come sale nelle pellicine. Continuai a bussare. Ma niente, i miei decisero di lasciarmi fuori! Si ostinavano a non aprirmi la porta, trincerati nelle loro moralità, nel mal celato bigottismo.
Il buio del cielo delle 22.00, non nascondeva il fulmine che stava annunciando un altro temporale. Il fascio di luce improvviso, squartò in due il nero cielo, fece per un secondo ritornare giorno abbagliando gli occhi curiosi della micina, dovette socchiuderli, non riuscendo a contenere quel bagliore più bianco del bianco divino. Il fulmine aprì un varco nel nero, fece scender giù chissà dove, a pioggia quattro rami enormi di spine, silenziose, fosforescenti, luminescenti, sordomute; Bet infatti vide dei colori che io e nessun altro umano, potevamo percepire. Poi susseguì un tuono. Forte, rimbombante, io e la gattina ci si abbassò per terra, tappai lei le orecchie, poi i primi goccioloni ci bagnarono la testa, le braccia, il suo pelo. Pareva una sottospecie di k-wey, era come se le goccioline rimanessero fuori, in superficie, poi scivolassero intatte giù. Come quelle sulle foglie delle piante. Avrei voluto esser un gatto anch’io in quel momento.
Mugolai qualcosa non ricordo cosa, fu una specie di “scusa non lo faccio più”, a quel punto la porta si riaprì dal suo interno. Entrai subito, alle mie spalle lasciai il secondo tuono roboante. Vidi mia madre corrucciata in piedi, stringeva il grembiule, lo faceva quando aveva voglia di tormentarmi. Mio padre seduto a capo tavola, i baffi bagnati dal vino rosso. Aveva già terminato di mangiare. Mi guardò al solito da cima a fondo. Coll’indice indicò di salire su. Mia madre invece non aveva neanche mangiato. Corsi su per le scale con Bet avvinghiata alle braccia.
Ci si mise sotto il piumone a riscaldarci, o meglio io mi ci misi, lei invece subito incominciò a saltare, a mordermi, a nascondersi sotto il letto per poi farmi gli agguati puntandomi direttamente gli occhi. Non ci mise neanche un’ora a farmi arrabbiare di nuovo. Prima di addormentarmi e sprofondare nei miei sogni, la vidi: la codina non era più dritta come prima, ma era molle. Cercai di accarezzarla, anche se lei era sfuggente. Cercai di dimostrarle la mia compassione. Durante la notte lei se ne andò in giro per casa, andò in cucina, salì sul tavolo a mangiare qualche resto della cena, trovò un angoletto comodo per lei e fece il suo bisogno. Il puzzo di bile con fegato bruciato in padella, diffusosi per l’ambiente, mi fece addormentare pensando che non si era persa, che quel cane non l’aveva uccisa, ch’era sopravvissuta ancora ed ancora.

DRIINN! La sveglia mi squillò all’orecchio sobbalzandomi, mi alzai, vidi le orme minuscole di Bet per tutto il piumone bianco. Facevano un girotondo verso il fondo. Erano una specie di “buongiorno” per me. Mi stiravo come lei, e come lei non ne volevo sapere di iniziare quella giornata, fra scuola, compiti, pulire a terra ciò che mi aveva regalato. Pulire la lettiera, riempirle le ciotoline, farla giocare rischiando un occhio.
Per prepararmi ad andare a scuola, non era molto vicina, mi toccava svegliarmi circa un’ora prima. Bet dormiva nel lettino mentre mi accingevo a vestirmi ed uscire. Dopo avermi mordicchiato dall’una alle due di notte i piedini. Mi alzai, andai di sotto, dove c’era il bagnetto. Piccoletto, munito solo di WC, lavandino e una tendina di plastica opaca che fungeva da doccia. Il tubo flessibile per doccia era attaccato al muro, per terra sulle mattonelle turchesi c’era il tubo di scarico dell’acqua. La doccia non aveva neanche i mattoncini di rialzo. Il bagnetto era sprovvisto pure di bidè.
Mentre camminavo ancora nel buio delle prime ore del mattino, un po’ dondolando come se non avessi acquistato del tutto l’equilibrio, stavo per mettere il piede su una cosa. Mi passò di striscio un’immagine nera ancora non ben messa a fuoco. Sotto di me, sul pavimento. Evitai di schiacciare quella cosa credendo fosse una pallina di pelo di Bet. Andai in bagno e mentre facevo pipì, vidi quella cosa piccola, scura, come bioccolo di polvere, muoversi! Mi prese un mezzo collasso. Vedevo proprio che si moveva. Si appiattì lungo il perimetro del muro e stava venendo verso di me.
Beccai per terra un ragno violino! Ormai non c’erano dubbi: era impossibile che della semplice polvere potesse camminare, quello era proprio un ragno. Con le zampette lunghe e rigide. Nere con impercettibili segni gialli, occhi impenetrabili, più neri del buio, a forma di ragno era quel ragno! Scappai urlando. Rimasi sotto shock per due settimane. Me lo sognavo di notte. Sognavo la mia tenda beige tutta piena di piccoli ragni. E si muovevano e si agitavano e diventavano più piccoli, e mi sentivo pungere. Dallo stress di quei pensieri mi venne l’orticaria. Stetti davvero male, la schiena si riempì di foruncoli piatti rossissimi a forma di fragole. Un prurito inimmaginabile. Mi grattavo, mi lavavo con l’acqua fredda, ma quelle fragole sulla schiena aumentavano. Anche quel giorno presi Bet per salvarmi dalla fobia che mi paralizzava e la lanciai direttamente nel bagno sopra il ragno. Sperando di vederlo morto appiattito sul pavimento, sconfitto. Dopo vari rumori, cadute di shampi, saponette, rumori inquietanti di corse di zampe, aprii la porticina di legno ridipinta bianca, incredula. Vidi Bet che aveva in bocca due zampe lunghe nere. Forse ero salva. Ma il cuore andava così veloce che mi pareva di perdere i sensi. Guardai le mani, tremavano. Avevo sul vero senso della parola, un attacco di ansia. Lo shock di aver pensato che quella cosa nera fosse pelo-di-gatto, poi invece essere smentita dalla camminata lesta, inequivocabile da ragno, mi aveva davvero turbata. Dopo due settimane di orticaria, di incubi notturni, di prese in giro da parte dei miei genitori:- Ha paura anche della sua ombra! Ah ah ah! – dicevano; fui costretta a tornare alla vita normale di tutti i giorni.
Anche a scuola si soffriva un moralismo sguaiato. I genitori degli alunni venivano quasi tutti i giorni a bussare in presidenza per lamentarsi di Tizio Sempronio e Caio. Molto spesso si presentavano direttamente “le nonne”. Coi loro scialli a frange lunghissime, le gonne nere, a dire Tizio ha detto a Caio questo e quello, le maestre sempre a difendersi con la scusa “del vedo e non vedo” – Chi può dirlo? Se non si è presente nei luoghi come si può dire come sono andati i fatti? -.
– Ho saputo del solito gruppettino, si ferma nel bagno delle femmine, che ci devono fare nel bagno delle femmine? Stiamoci attenti eh! Mo’ figlia non ha più voglia di venire a scuola per ‘sto motivo! C’ha paura d’andare in bagno! –
– Chi tua figlia? Ma se è lei che è la prima che chiama mio figlio! Tua figlia non vuole venire a scuola perché sei te che non ce la vuoi portare! –
– Tuo figlio deve lasciarla stare ah! Se no a suo padre lo riferisco! Ci dico tutte cose -. Le mamme accompagnate dalle loro mamme con scialli, ad insultare davanti a tutti i bambini, la preside e le maestre “che non sanno mai niente”. Poi la sfilza dei – Sempronio ce la deve finire a dare cazzotti a mo’ figlio! -, – No guarda, il mio non ne fa di ‘sti cose! È scontato come la matematica! Il mio mi ha riferito ch’é stato Caio a cominciare! -, – See un angioletto è il tuo eh! Allora perché il mio viene a casa coi lividi alle gambe? -, – Maestra ma dica qualcosa? Lei dov’era quando è successo o’ fattu? -. La preside cercava di far da paciere e accordandosi con le maestre riferiva di mettere in punizione tutta la classe, senza ricreazione per una settimana, così a forza di fare così, la “prossima volta avrebbero imparato”. Ma no. Quella “prossima volta” noi bambini, la stiamo ancora aspettando dalla prima elementare.
Mentre la maestra di inglese, calabrese, Rosina, spiegava alla lavagna facendo graffiti col gessetto ed un rumore agghiacciante tipo unghie sui vetri, e con la voce stridula, l’accento spiccatamente calabro-english, metteva assieme il Past col Farst ed il O’ Clock per l’orologio, mi assentavo distraendomi guardando fuori dalla finestra. Eravamo giunti senza nemmeno accorgerci a fine Gennaio, e la pioggia era a catinelle. Là in fondo vidi un gatto rosso, sotto la palma nana del giardino della scuola. Era fradicio di pioggia. Da lontano lui guardava me, io guardavo lui. Era fermo, una figura statica, il fiato sul vetro appannava l’immagine. Poi con la manica della felpa sfregai il vetro per spannarlo, non lo vidi più. Figure che appaiono e scompaiono i gatti. La pioggerellina batteva imperterrita sulle vetrate, per terra. Non c’era nessuno nelle strade, non un’anima viva, mi chiedevo cosa facesse la popolazione dalle 9 del mattino fino alle 16.00, perché sparisse dalla circolazione, soprattutto quando pioveva. Ripiombai col pensiero e con l’udito nell’aula, con l’accento spiccato calabrese chiedermi:- What Time is it? -.
– Pss… pss… ehi sveglia, dille Thirteen o’ Clock! -, bisbigliò all’orecchio la mia compagna di banco, Giusy. Giusy era una vera amica per me. Aveva un anno in più di tutti noi, perché era ripetente. Ma appena la vidi capii subito: con lei volevo stare a sedere in quinta. Dal primo momento che ci si scambiò un’occhiata, il primo giorno di scuola a settembre, tutto il resto della classe fu come scomparire. I rumori dei banchi, il ciaccolare delle maestre nei corridoi, gli altri coi grembiuli blu tutti schifosamente uguali, persino i rumori delle campanelle. Mi si mise davanti, a un palmo da me, coi suoi occhietti un po’ strabici, la bocca mezza sdentata, e quei pochi incisivi rimasti erano accavallati l’uno all’altro, spilungona e secca come un chiodo, capelli neri cortissimi ma che andavano dritti verso l’alto e sulla fronte. Le falangette delle mani erano ricurve all’interno come una precoce artrosi. Quei jeans mingherlini sembravano ospitare aria dentro. Le gambe lunghe, prive di qualsiasi forma femminile, formavano una x. Insomma uno scherzo della natura. Eppure aveva qualcosa. Aveva quel qualcosa in più di centinaia d’altri compagni lì. La battuta sempre pronta, come una fucilata, una risata… la sua risata era onesta, fatta di sincero volume schietto, che quando ti prometteva qualcosa, lo sapevi, lo sapevi fin da subito che avrebbe scalato una montagna per te. Aveva un vocabolario limitato, fatto sostanzialmente di parolacce, ma dette solo quando andavano dette, mai, mai, mai a casaccio, “non va sprecata un’imprecazione” diceva, ecco in maniera più “fantasiosa”. Quando la facevo arrabbiare e mi mandava a quel paese, lo diceva come se declamasse poesie. Non rimanevamo litigate per più di 10 minuti. Dopo veniva sempre lei, con metà del suo panino, o con una caramella gommosa. Irresistibile farle un sorrisetto. Se non c’era lei in classe, come avrei fatto? Mi sentivo diversa dagli altri. E non è che lei non mancasse a scuola eh, anzi erano più le volte che non veniva, che le volte in cui ci degnava della sua presenza. Io mi sentivo sola quando lei marinava la scuola.
– Ma che fai? Guardi dove metti i piedi? Ma ci vedi tu? – ecco questa la prima frase che le scambiai la prima volta.
– Ah boh, ho questi occhiali. Mo’ li prendo. – Rispose mantrugiando qualcosa dentro la tasca del suo zainetto brutto.
– Hai gli occhiali? E perché non li metti sempre? –
– Ho gli occhiali sì, boh che ne so! Non lo so! – poi si mise a sedere accanto a me, con un fare fra l’arrogante e il divertente.
– Tieni. Muta.- Mi disse dandomi il suo numero del cellulare in un bigliettino scritto sulla cartina delle gomme da masticare. Sapeva di coca-cola. Poi tirò fuori dallo zainetto il suo cellulare, e senza farsene accorgere da sotto, incominciò a spippolare sopra, nel suo Brawl-Stars. Io ebbi un po’ paura della maestra, che mi rimproverasse al posto suo; quindi mi spostai il più possibile verso il vetro della finestra.
– Ma che fai? Lo sai che non si deve usare il cellulare quando ci sono loro! –
– Lo so lo so, muta. – si ingobbì ancora di più, come se non volesse esser disturbata da me. Durante quella prima lezione Giusy continuò a giocare al suo giochino elettronico spudoratamente. Era tutta esperta, più esperta di noi e delle maestre, esperta in giochini, esperta in posti dove marinare la scuola senza esser scoperti, esperta in copiare i compiti in classe, esperta in questo quello quell’altro. Ma se qualcuno le rispondeva male, guai, mi veniva d’istinto di prenderlo a spinte. Lei era la mia migliore amica, me lo disse a chiare lettere la chimica che passò da mano a mano, quando ci si mise a sedere insieme, quella prima volta. A distanza di 4 lunghi mesi la nostra amicizia era già ben collaudata, ma ancora una volta riuscì a stupirmi l’imprevedibile Giusy. Era maledettamente religiosa! Faceva il maschiaccio, faceva occhiatacce, era dura, sputava in continuazione a terra come Michelino, però guai a toccarle Cristo in croce. Lei ci credeva, come quando una madre ti dice qualsiasi cosa, tu le credi anche ad occhi chiusi. Con quella genuinità che solo i piccoli hanno.
Lei era una grande, piccola.
Così in quel fine gennaio lei mi fece:- Che hai fatto a Natale o dopo Natale? –
– Niente che ho fatto? Ho mangiato a casa con mia madre, mò pà e la gatta –
– EH?? Cosa? Non siete andati a messa? –
– See! A messa! Non ci vado dalla Cresima. Non mi piace. Mi annoia –
– Cosa? Eh? Strano. Certo che siete proprio strani voi! – disse guardandomi dallo spessissimo vetro dei suoi occhiali, occhiali rotondi con il bordo celeste, grossi come fondi di bottiglia; poi aggiunse lapidaria:- È la nascita di Gesù e voi non siete andati a pregare per lui. -.
Sopraggiunse un silenzio dall’oltre tomba, in cui lei si chiuse nel suo riccio per un po’, mentre me ne andai a giocare da un’altra parte, così semplicemente. Capii che niente, non ci si poteva far niente, Lei ed io avevamo gusti diversi, a me piacevano i gatti, a Lei piaceva Gesù e la Madonna, e a noi piaceva così.
La campanella alle 13 e uno si mise a squillare per tutti i corridoi come un fischio assordante e tremolante, eppure era musica per le nostre orecchie. Si scappò via di classe con gli zaini mezzi aperti. Ridendo come fosse ancora il primo giorno di scuola. Stesso entusiasmo stessa risata stessa adrenalina. Dissi a Giusy se le andava di venire da me a pranzo, le avrei fatto conoscere la mia piccola, non tanto docile Bet.
– Ok, tanto ho poca fame, di solito mangio solo il pane –
– Non ti preoccupare quello a casa mia ce n’è a volontà! -.
Appena giunte da me, si trovò Bet che giocherellava lì davanti l’uscio di casa, con una mosca che stava affogando in una pozzanghera, vicino la sua lettiera. Tutt’intorno era pieno di pozze d’acqua che sgorgavano dai tombini intasati. Ci si schizzava correndo.
Bet appena mi vide mi corse incontro a coda ritta. Ma non miagolava mai. Dimostrava la sua attenzione nei miei riguardi con la coda, senza fusa, senza rumoreggiare, solo tre secondi di struscio, poi via. Bet era così, un po’ selvaggia.
Giusy appena la vide le si fiondò subito addosso, con l’intenzione di prenderla in braccio, gracchiando un “beellinaa”! Ma lei si mise a correre come una pazza. Prima dentro casa poi fuori per strada, poi saltando su una macchina parcheggiata là davanti, poi di nuovo dentro casa. Correva come una matta saltando anche sulle sedie in cucina, facendo allarmare mia madre e mio padre, intenti ad apparecchiare tavola. Giusy allora tirò fuori dal suo zainetto color cadavere, un foglio di carta. Lo arrotolò dicendo col ghigno inconfondibile suo:- Eh eh, ora ti prendo io, “spinnacciata”!- e ne fece una piccola pallina. Bet appena se la vide arrivare davanti, la pallacarta, fece un salto enorme, tipo un metro d’altezza. Parò la pallina perfettamente in aria. Senza nemmeno accorgercene, ce la vedemmo un’altra volta fra i piedi. Gliela ritirai. Ma lei si mise a giocarci, a passarci la palla come fosse Roberto Baggio. Un grande calciatore avevo per casa.